Francesco Bevini, classe 1978, opera nel campo del writing e della street art producendo concepts grafico-decorativi eremiti fra gli ambienti esterni e quelli interni; anche il significato delle sue opere non è fisso, l’artista infatti lascia agli sguardi dell’altro l’interpretazione generando nei posteri giudizi sospesi.

Un tipo graffiante riflessivo ed enigmatico.


Quando e come inizia questa tua passione?

“Il caso ha voluto che un giorno di circa venticinque anni fa mi trovassi in una libreria in centro, assieme ai miei genitori e, ricordo, ne uscii con una copia di Subway Art di Martha Cooper e Henry Chalfant. Mio padre mi aveva regalato una pubblicazione che negli anni si rivelò fondamentale e ritenuta ormai tra quelle imprescindibili per chi ha intenzione di accostarsi a questa forma d’arte. Nel libro sono raccolte almeno un paio di centinaia di foto raffiguranti l’attività dei primi writers tra il 1976 e il 1982 sui vagoni della metropolitana di New York”.

La prima volta che hai visto un graffito di persona?

“Fu a Bologna, al giardino del Guasto. Era l’inverno del 1993, se ben ricordo, perché i primi timidi, ingenui e risibili tentativi di emulazione ebbero luogo in quel periodo. Entrai presto in contatto con altri ragazzi grazie a circostanze fortuite e fortunose, trovarsi fu solo questione di tempo poiché in città si era giusto in tre o quatto al massimo a subire il fascino per quelle grandi lettere contorte, a prima vista illeggibili. Si dipingeva per lo più negli spazi occupati, ma capitava anche che locali o negozi richiedessero la realizzazione di disegni al loro interno, coi ricavati era possibile finanziare l’acquisto di altri spray innescando cosÏ un circolo virtuoso grazie al quale si è fatta tanta pratica. Anni dopo presi parte alla lunga e stimolante esperienza di Icone, dal 2002 al 2013 con Pietro, Gianmario, Luca.
Agl’inizi dei duemila, Icone era in Italia una delle prime e uniche rassegne di writing e street art ad ampliare lo sguardo al di là del semplice muro dipinto in gruppo, proponendo in ogni edizione un programma che comprendesse anche appuntamenti in spazi espositivi come la galleria D406, incontri con autori di pubblicazioni sul tema e iniziative che avessero come soggetto anche forme d’espressione da considerare forse più laterali rispetto al mondo del writing, ma molto importanti, come la fotografia. Tuttora la casa continua a tracimare fogli, cartoncini, bozze e ad essere disseminata di pennelli, rulli e bidoni di colore essendo ormai diventata una sorta di professione”.

Nella tua espressione, rivedo il suprematismo di Kazmir Malevich, ma anche il futurismo di Depero. Il tutto unito da una figurazione sfuggente ma presente.
La tua è un’espressione innovativa e per tanti versi rivoluzionaria, ma con profondi richiami a tradizioni passate. Chi o cosa è stato fondamentale nel tuo percorso?

“L’aver potuto condividere questo interesse con gli amici e conseguentemente poter ampliare lo sguardo sul fenomeno ritengo sia stata la base ideale. Venendo meno tale presupposto probabilmente mi sarei fermato molto tempo fa. Ho tanti riferimenti derivanti sia dal mondo dell’arte ufficiale, sia dall’arte urbana. In passato mi ha molto colpito la produzione di alcuni graffitisti francesi della zona di Bordeaux, cosÏ come i lavori provenienti dall’europa dell’est nei primi anni duemila. Ciò che li accumunava e attirava maggiormente la mia curiosità era la volontà di staccarsi e scardinare radicalmente i canoni classici del writing americano e sue successive rielaborazioni, approdando in territori piuttosto insoliti come l’astrattismo. È quindi probabile che in fase progettuale, nel momento in cui sono al lavoro su un’illustrazione, o su un lettering emergano elementi deco o art nouveau, il dada, il costruttivismo o il futurismo, corrente che forse più di ogni altra mantiene inalterato in me un sentimento di arrendevole ammirazione per le peculiari soluzioni grafico pittoriche. Inoltre trovo abbia, sotto alcuni aspetti, notevoli punti di contatto con il writing”.

Ti piace sperimentare, usi differenti tecniche?

“Non credo di potermi definire propriamente come uno spregiudicato sperimentatore, in tutti questi anni mi sono trovato a mio agio per lo più con i classici pennelli, spray, matite, micromine da disegno tecnico. Qualche tempo fa mi è stato chiesto di realizzare alcuni lavori su vetro con nastro adesivo sagomato a cutter, trovo sia una tecnica molto adatta per quel tipo di figurativo dal segno molto grafico su cui ormai da qualche tempo sto lavorando sempre più spesso”.

Nel 2012 hai realizzato la copertina del disco Good Luck, dei Giardini di Mirò.
Il tuo rapporto con la musica?

“Sì, quella coi Giardini di Mirò è stata una bella collaborazione, molto stimolante. Le copertine dei dischi sono da sempre un ambito in cui nascono lavori di illustrazione notevoli, sarei ben lieto di ripetere un’esperienza simile”.

Prossimi progetti?

“In termini pratici mi piacerebbe fare qualche progresso soddisfacente con l’acquerello e affacciarmi sul mondo, al momento per me ancora piuttosto arcano dell’incisione. In termini ideali ho la speranza di riuscire ad affrontare i nuovi progetti sempre con l’obiettivo, almeno nelle intenzioni, di realizzare un lavoro migliore del precedente. Se arriva a mancare quello, finisce tutto”.

Francesco Bevini inaugura oggi – venerdì 28 aprile – alle 18 alla Galleria d’arte P.A.C di Novi di Modena la personale FRACTURÆ.

FRACTURÆ, col suo fare geometrico, si svela tra simbolismi e frammenti di figure. Sono fratture quelle che ci presenta l’artista, attraverso le quali è possibile cogliere arti, occhi, volti misteriosi e surreali; un punto d’incontro tra l’astratto ed il figurativo, fusi in immagini dalla dirompente forza espressiva.