Quando insieme agli altri ragazzi di Mo.Cu abbiamo iniziato a fare le prime riunioni per capire che contenuti inserire nelle nostre pagine, una delle mie richieste era quella di far emergere delle figure assolutamente “invisibili” ma che con il loro operato avevano cambiato il corso della cultura, del life style, della creatività, e della società civile a Modena ma non solo. 

Uno di questi personaggi è Fabrizio Orlandi: classe 1957, nato a Modena, deus ex machina dagli inizi degli anni ’80 ad oggi della scena culturale modenese, dai concerti di Siouxie and the Banshees, dei Bauhaus, dei Lounge Lizards e poi di Chet Baker e di tanti altri, co-fondatore del Teatro San Geminiamo e del Teatro delle Passioni, “regista tecnico” delle Vie dei Festival e poi tante altre cose che compongono un meraviglioso puzzle di una delle persone che più ammiro e stimo. 

Fabrizio Orlandi
Fabrizio Orlandi

Facciamo finta che non ci conosciamo da trenta e passa anni e devi descriverti.

Fabrizio inizia ripentendo una parola che prima dell’inizio dell’intervista avevo utilizzato per me… ovvero looser, perdente… perché a volte ( almeno per me ) la sconfitta è più gestibile e ti mostra le parti meno visibili del tuo io.

Mi piace la definizione che ti sei dato prima Jumbo, ovvero anche io sono un looser, sicuramente, perché ho percorso e ho fatto tante cose nella mia vita, all’interno e nei dintorni della cultura, del teatro e dello spettacolo dal vivo, senza per questo considerarmi né un fenomeno né, men che meno, un vincente. Ho cominciato giovanissimo, con una folgorazione sulla via di Damasco, facendo l’obiettore di coscienza a Modena e ho iniziato occupandomi di cultura e da lì io, che ero sicuramente un orfano della politica, ovvero deluso da una serie di sconfitte dei nostri movimenti di pensiero, lontano in qualche modo dalla violenza che scaturisce dopo il ’77, mi allontano e trovo una dimensione di lavoro culturale e di lavoro politico all’interno della cultura. La cultura la intendo allora come una servizio da offrire alle persone e alla mia città e inizio in un momento fortunato, per lo meno io lo considero tale, in un momento in cui i Comuni ragionano sul cosiddetto decentramento culturale: portare eventi, spettacoli e cultura anche fuori dal centro città. Si trattava allora di andare nei quartieri periferici e portare gli spettacoli nelle piazze, luoghi improbabili costruiti nell’edilizia Pep dove non esisteva ancora una vera socialità. Luoghi che, in quegli anni di espansione della cintura periferica, sembravano lontani dal centro e noi, ovvero quelli del Coordinamento Biblioteche, con referente Pietro Valenti, con cui abbiamo poi fatto tanta strada insieme e anche tanta separata, si lavorava per portare a “casa” di queste persone la musica, gli spettacoli. Ricordo che con due semplici luci al quarzo, un palchetto di praticabili, un impianto audio assolutamente essenziale e minimale si faceva la serata, ricordo le persone che si portavano la sedia da casa e si guardavano queste cose ed era tutto gratuito, così si contribuiva alla diffusione di espressioni artistiche e musicali che solo pochi anni prima parevano improbabili e irraggiungibili per questi quartieri. Tutto questo mi dava una sensazione di bellezza, mi dava una sensazione che riempiva la mia vita e il senso della mia operatività in quel momento.

Logo Teatro san Geminiano
Logo Teatro san Geminiano

Da lì nel 1983 nasce la vera e propria esperienza del San Geminiamo, e il progetto diventa prevalente, dominante: la stagione, le produzioni, gli anni di un “teatro” indimenticabili, che sbocciava, mutava e sovvertiva la scena italiana, facendosi portatore di una nuova idea del fare e del vedere il teatro. Santagata / Morganti, Teatro Della Valdoca, La Raffaello Sanzio, Pippo Delbono, Teatro dell’Elfo, Cesar Brie, Danio Manfredini e tanti altri erano di casa al Teatro San Geminiamo, sostavano, producevano, rappresentavano anche per periodi lunghi, viste le dimensioni della sala. Poi sono arrivati gli anni della collaborazione con Thierry Salmon, importantissimi per il teatro e per la mia crescita personale, e siamo già negli anni ’90.

Cosa ho fatto io, ho attraversato un mondo culturale negli anni dove ci sono state delle grandi “esplosioni” e delle grandi bellezze. Però ho anche vissuto più di un decennio in cui tutto questo panorama andava via via raggrinzendosi, restringendosi, diventando vieppiù un terreno sempre meno fertile e sempre meno produttivo, dominato dal concetto di cultura come impresa.

E da lì sono cambiate le cose, è cambiato il mio lavoro, il mio approccio all’operatività, pur continuando ad avere la fortuna di incontri sempre nuovi e straordinari, ma forse meno frequenti, vedi per esempio quello con Enrique Vargas: regista colombiano ideatore di labirinti sensoriali, con il quale ho poi girato Europa e Italia durante cinque anni in tournée.

Quindi sono stato sempre molto fortunato, ma progressivamente vivevo una nuova vita, diventavo nuovamente orfano di qualcosa e perciò questo mi ha portato piano piano a ritornare verso una dimensione più manuale, più tecnica, a ritornare dietro le quinte, a fare delle mie mani la mia memoria e della mia memoria le mie nuove mani. Il fatto allora che questo bagaglio d’esperienza non andasse perduto bensì tornasse in forma nuova nella tecnica e nell’apprendistato delle tecniche mi ha rivitalizzato nuovamente. Ora sono contento di questa scelta, questo non toglie che mi sono ritagliato in questi anni degli spazi miei, di collaborazione con la Galleria Civica, con la Biblioteca Delfini e con altri istituti culturali non solo modenesi, ad esempio il Festival della Letteratura di Mantova, con cui abbiamo collaborato ( lui e Claudio Ponzana e Marco Olivieri) per quattro anni consecutivi, facendo cose meravigliose, tra cui una serata dedicata al silenzio con Ezio Bianchi. Pur ritagliandomi degli spazi miei, la trincea di resistenza negli anni è diventata la tecnica, il lavoro dietro le quinte.

Fabrizio, ma perché tutto questo? Perché sono cambiate le persone, gli atteggiamenti o perché, come dicevi prima, non c’è ancora terreno fertile?
È cambiato l’atteggiamento delle istituzioni nei confronti della cultura, e poi a un certo punto mi sono reso conto che un’esperienza come quella del San Geminiamo, una volta che ha chiuso i battenti, non era più trasferibile in un altro luogo. Quello spirito, quella freschezza e quello slancio vitale e artistico… in realtà non solo i tempi erano cambiati, ma anche il mio compagno di viaggio e mentore, ovvero Pietro Valenti, erano cambiate le sue responsabilità, il suo modo di vedere le cose, ma sopratutto era cambiato il suo universo, così come era cambiato il mio. Nella mia vita non ho mai cercato il conforto, ma il confronto, sopratutto sul lavoro, perché per me il confronto è importante è vitale. Questo è accaduto a lungo nella mia vita con i miei compagni di lavoro, poi qualcosa si rompe, resta l’affetto, il rispetto reciproco, ma cambiano i contesti e i tempi, le responsabilità in una ‘coppia lavorativa’, sono sempre condivise. Effettivamente io, essendo più giovane, avevo un altro tipo di formazione, stentavo a capire le responsabilità che Pietro si era assunto, non avevo questi quadro così chiaro, che lui aveva e doveva avere. perciò il confronto è diventato sempre più difficile, mi sfuggivano le sfumature del lavoro culturale.

TRE STUDI PER I DEMONI / THIERRY SALMON
TRE STUDI PER I DEMONI / THIERRY SALMON

Io penso, Fabrizio, che tu non potrai mai essere un politico.
I progetti nascono per costruire qualcosa. Quello che noi abbiamo fatto al San Geminiamo è stata un esperienza quasi unica in Italia. Esistevano altre esperienze affini, però nascevano da un gruppo teatrale, nell’epoca dei gruppi, noi invece eravamo un gruppo di operatori culturali. E io ho sempre difeso questa cosa, l’operatività culturale, che per me significa fare delle operazioni a “rischio”  anche con grandi margini di rischio, ma che in determinati periodi storici ci hanno dato delle soddisfazioni immense. Anche il fatto di avere al San Geminiamo una foresteria, abbastanza improvvisata, creava un impatto sul sociale, il fatto che i gruppi restassero un mese, faceva sì che stringessero rapporti con il quartiere, con i negozianti che poi venivano a vedere lo spettacolo, e questo creava un vero e proprio impatto ambientale. Questo non succede più! Io adesso sto andando in giro con lo spettacolo di Pippo Delbono, ma noi andiamo tre giorni in un posto, pubblico entusiasta ma sia noi tecnici che gli attori non abbiamo il tempo materiale per uscire e confrontarci veramente con il posto dove siamo. Quello che manca è un po’ di lentezza, di tempo di sosta, un modo di produrre differente. Questo mi è mancato molto da un certo punto in avanti.

Quando hai fatto il tuo primo concerto, è stato Siouxie, mi ricordo ancora che salite due rampe di scale del coordinamento biblioteche c’eri tu con Alberto Molinari che sorteggiavate tra noi, gli S80 e gli Stigmathe chi doveva fare da gruppo spalla alla regina del punk, e vincemmo noi! La mia domanda è: perchè il tuo primo concerto fu quello, perché vi fu proposta o perché vi sentivate affini a quelle sonorità?
Noi iniziammo a occuparci anche della musica, perché appunto ci occupavamo della programmazione dell’Estate Modenese, che comprendeva tutta una serie di eventi, da quelli piccolini, come quelli nei quartieri di cui ti parlavo prima, ad alcuni eventi cittadini su cui il Comune investiva di più per avere una maggiore visibilità. Allora a quel punto subentriamo io e Alberto Molinari con la nostra cultura musicale che era aderente a quegli anni, ascoltavamo quel tipo di musica, avevamo l’occhio e l’orecchio attento ai dintorni musicali perché era qualcosa che sentivamo vicino e guardavamo con grande curiosità.

Siouxsie & The Banshees
Siouxsie & The Banshees

Quando io e Alberto iniziammo a fare questo lavoro dei concerti, Pietro ci diede carta bianca in tal senso, lui si affidava e aveva grande fiducia in questi due ragazzi che erano all’interno di questo mileau musicale, attingevamo si alle proposte di alcune agenzie, ma essenzialmente mettevamo in gioco una nostra passione e una conoscenza di ciò che portavamo in città. Una cosa che in quel momento ci fece molto gioco, sopratutto nell’ambito del Pop e della New Wave, fu il fatto che si era appena costituita Agidi di Paolo Guerra. Ci conoscevamo e abbiamo iniziato a collaborare. Talvolta le proposte nascevano da noi, altre volte da loro e qualche progetto anche insieme come nel caso dei Rip rig and Panic, Maximum Joy, A Certian Ratio, che poi fecero altre piazze in Italia. Con Agidi portammo anche i Lounge Lizards, I Bauhaus, Echo and the Bunnymen ( che si dovevano fare ai laghetti di Campogalliano, ma che per maltempo, vennero spostati al cinema parrocchiale, con la gente che faceva a schiaffoni per entrare!).

Tutte queste band facevano parte dei mie ascolti personali di quel periodo e mi faceva piacere portarli nella mia città, poi non sempre le cose sono andate come si voleva, era anche questo lo stimolo del lavoro, cioè quella che tu chiami creatività, cercavi di pensare un progetto, un percorso che avesse un senso, come successivamente abbiamo fatto con Luciano Trebbi. La rassegna musicale L’invasione degli Altri Suoni fu una nostra creatura, e ogni vota si progettava un percorso che voleva arrivare a una meta ben precisa, era musica che non era consueta per i nostri palchi, che sfuggiva le catalogazioni canoniche per idearne altre, artisti come Teddy Riley, John Surman, Steve Reich, John Zorn, Wim Mertens, Diamanda Galas, Marc Ribot, Lol Cohxill, Philip Glass e tanti altri. Un’esperienza fondamentale per noi e credo, forse anche immodestamente per la città, che ad un tratto terminò e se ancora oggi mi chiedi il perché, stento a trovare una risposta. Molti anni dopo il Teatro Comunale fa una rassegna che è ancora in vita che si chiama L’ Altro Suono” che per i primi anni di programmazione ha riproposto molti artisti che erano già passati dalla nostra città e allora Luciano ed io, anche un po’ scherzando ci dicemmo che avremmo potuto continuare noi a fare quella Rassegna.

Dopo tutti questi anni passati all’Ert di Valenti come vedi il futuro dell’ente?
Io sono molto aperto a nuove collaborazioni e a nuove esperienze, a me piace l’idea di interagire con un nuovo pensiero, una nuova direzione. Io sono molto affezionato a Pietro, ho con lui una storia comune e tante affinità e a lui debbo molte delle mie esperienze e conoscenze, però sarebbe ottuso dire ‘apres lui le deluge‘ , ben venga il nuovo.
Spero ci possa essere continuità nella differenza, egoisticamente per esempio mi auguro che un’esperienza come quella di VIE resti perché non solo è nel mio cuore, ma è ormai parte del tessuto culturale della nostra città.

Per me Vie è un appuntamento che sento sempre come un punto di partenza per capire cosa succede nel mondo della creatività e non solo del teatro, e vedo cose che sei sicuro mi piaceranno.
È un festival che muove le acque, crea un ambiente, per quindici giorni ci sono persone da tutto il mondo, compagnie che si mescolano con il pubblico, c’è una forte interazione, un forte scambio. Vie ha acquisito negli anni una sua forza specifica, un’identità costruita con intelligenza e garbo. Con lungimiranza e rispetto del pubblico che la premia sempre con grande affetto e dedizione.

Ma se uno dovesse elencare tutte le cose che hai fatto?
Una volta dovevo fare un curriculum e non sapevo cosa scriverci, in questi anni un percorso che ho affrontato è quello dell’umiltà, sono convinto che ho ancora molte cose da imparare da tutte le persone che incontro, ma è anche vero che se mi guardo indietro un po’ di cose le ho fatte, un po’ di persone le ho conosciute.

Chi è che nella tua vita ti ha segnato sul tuo percorso?
Thierry Salmon è quello con cui ho stretto il rapporto più intenso tra tutti gli artisti che ho conosciuto e avevamo anche molte affinità elettive, passavamo ore e ore a parlare, quando abbiamo fatto insieme lo studio sulle Troiane a Sant’Arcangelo, dove c’era anche Fabrizio Maselli, io e Thierry eravamo in camera insieme e dopo le prove la sera si parlava moltissimo, ed era un confronto continuo e non c’erano mai censure e non c’erano mai non detti, c’era un costante tentativo di aprirsi uno all’altro. Lui era uno che amava questa cosa, nel senso che non aveva nessun tipo di filtro sul lavoro, andava a fondo sempre, scavava scavava, finché non trovava il nucleo di quello che lui voleva dire, l’essenza. 

Altri personaggi con cui ho avuto dei contatti fugaci? Sono rimasto folgorato da Chet Baker, sul quale ho scritto anche un piccolo raccontino, l’ho scritto su quella giornata che fu molto impegnativa, non si presentò per tutto il giorno e noi eravamo in una fibrillazione assurda perché non era venuto a fare sound check, sapevamo che era a Modena, perché era alloggiato all’Hotel Canalgrande. Inizia il concerto Phil Woods e il suo quintetto fa la prima parte del concerto, era un innesto che avevamo creato noi, Chet Baker nell’87 non aveva un gruppo, girava da solo e si associava di volta in volta a delle band che facevano lo stesso tragitto e perciò la prima parte era con Woods e nella seconda parte entrava Baker. Oltretutto lo pagammo solo un milione di lire, non lo voleva più nessuno, il titolare della Red Records era stato  lui che ci aveva creato il contatto e ci disse “siete sicuri di volerlo far suonare a Modena?”

Nel frattempo il concerto di Woods continuava e lui non si vedeva ancora, chiediamo a Phil di tenere la sua performance più lunga, ottocento persone nel cortile di Santa Chiara iniziarono a rumoreggiare, erano tutti lì per ascoltare Chet Baker. Luciano Trebbi aveva girato tutto il giorno in Vespa per vedere di trovarlo, verso la fine del concerto di Woods arriva una maschera e mi dice “c’è un signore all’ingresso che deve suonare”. Corro a vedere ed era lui, mi da la mano e mi dice Hi I‘m Chet” io sbianco, andiamo subito in camerino, poi si accorge di essersi dimenticato in albergo la pasta adesiva per la dentiera, l’andiamo a prendere, si rolla un joint sale sul palco e inizia il concerto e io e Luciano ci siamo commossi, era lo scarico della tensione o forse era solo la magia della sua tromba, se non sbaglio è stato l’ultimo concerto italiano prima della sua morte. Quello è stato un incontro magico, non sarà facile dimenticarlo, così come quelli presenti non dimenticheranno il concerto.

Un altro tra gli incontri fugaci che mi colpì fu quello con Lester Bowie, lui era un vero signore, una persona di una cortesia e una gentilezza e aveva un abilità nel suonare la tromba, la piazza era gremita ed incontrare l’anima di Art Ensemble of Chicago non era cosa da tutti i giorni.

Poi a un certo punto della mia vita è stato importante conoscere Enrique Vargas, più che altro lavorare con lui, con lui, con il suo gruppo storico Thomas Roper, Rosa Romero, Renè Mendez, Gabriel Hernandez, Antonella Cirigliano. Ho imparato moltissimo da loro, ho imparato ad acuire la mia sensibilità artistica, ho imparato a costruire labirinti, ad ascoltare il mondo in un modo diverso, è stato un incontro di 5 anni bellissimi. Anche Eugenio Barba  (Odin Theatre) a suo modo ha lasciato un segno dentro di me, una personalità fortissima, ho fatto una settimana I.ST.A. Salento nel 1987 (International School of Theatre Anthropology) con una serie di drammaturghi, registi e attori e vedere Barba lavorare è molto affascinante, un grande carisma, un indomabile, inarrivabile perchè dotato di un magnetismo e di una lucidità mirabili. Straordinario quando montava le improvvisazioni degli attori, un maestro.

E, come si suole dire, last but not least, il teatro mi ha consentito di incontrare e di scambiare e imparare da l’unico maitre a penser che riconosco veramente in tutto e per tutto: Piergiorgio Giacchè, antropologo, intellettuale raffinato e penna inarrivabile, a lui debbo anche la curiosità che mi resta, la voglia di essere ancora nomade in cerca di nuovi apprendimenti”.

Tu hai anche una grande passione per la lettura. Quanto influisce su di te e sul tuo percorso
Mi ha arricchito, continua a piacermi, e non leggo solo romanzi, anzi leggo moti saggi, perché dei romanzi e degli autori bisogna che io mi innamori, quando poi l’amore arriva, spesso è per sempre. La saggistica mi appassiona e mi porta ad arricchire un mio “dibattito interno”, quando trovo qualcuno che scrive e analizza le cose in maniera per me efficace e soprattutto chiarificatore proprio accade che mi dico “avrei voluto dirlo io e avrei voluto dirlo esattamente nello stesso modo”. Quindi la lettura è una grande compagna, continua a darmi molto piacere, la lettura ha sempre creato in me “il territorio”, l’humus nel quale poi vai a pescare le tue idee, perché rappresenta il substrato del pensare, come diceva Gilles Deleuze se riesci, durante una vita, ad avere un’idea ti puoi considerare molto fortunato, pensare di essere originali è una presunzione non c’è niente di originale, noi viviamo all’interno di un immenso territorio culturale e da lì dobbiamo attingere, Borges lo diceva per la scrittura “… tutto è già stato scritto, bisogna solo capire come lo si riscrive” . Io quando posso e dove posso cerco di riscrivere qualcosa che altri hanno già scritto, di ripensare qualcosa che altri hanno già pensato, di ritrovare qualcosa che magari altri hanno smarrito”.


San Geminiano Teatro Aperto

Le immagini contenute in questo video sono state girate nel 1996 per la realizzazione del lungometraggio SAN GEMINIANO TEATRO APERTO, immaginato a partire dalla chiusura del Teatro San Geminiano di Modena.
Il progetto non è mai stato ultimato e quello che si può vedere è una sequenza di interviste ed immagini, montate solo secondo la sequenza temporale di registrazione.
Il progetto e le immagini sono di Fabrizio Orlandi, Gigi Pedroni e Claudio Ponzana.
Nel video appaiono, tra gli altri, Cesar Brie, Antonello Cossia, Maria Grazia Mandruzzato, Luisa Pasello,  Paolo Pollo Rodighiero,Thierry Salmon, Alfonso Santagata, Magda Siti.