All’interno del programma del Poesia Festival 2018, che dal 17 al 23 settembre ha coperto il territorio dell’Unione Terre di Castelli, spicca, per più di una caratteristica, l’evento “Non credete solo a quello che vedete”. Si tratta di un reading poetico organizzato dalle 18.30 di sabato 22 settembre, in pieno tramonto, nella suggestiva cornice del Monte Tre Croci.

È l’unico, tra gli eventi del Poesia Festival, a conciliare poesia emergente, natura, e una certa motivazione nel voler essere presenti, dal momento che il monte può essere raggiunto solo tramite due percorsi a piedi in pendenza. Queste caratteristiche hanno reso l’evento qualcosa di molto più simile ad un’esperienza che ad una conferenza poetica, differenziandosi così dal resto dell’offerta.

Il Monte Tre Croci si trova in confine tra Castelvetro e Marano sul Panaro, tanto che l’evento nasce dalla generosa e ormai collaudata collaborazione tra gli assessori alla cultura di entrambi i territori, Giorgia Mezzacqui e Giovanni Galli, e il poeta Marco Bini organizzatore dell’evento. Un appuntamento che si introduce anche in una serie di occasioni, come ha spiegato in apertura l’assessore Mezzacqui, votate alla condivisione e promozione di questo luogo speciale, caratterizzato da tre enormi croci di legno che trafiggono la collina dal, si pensa, 1600, come voto al divino per ringraziarlo dell’assenza della peste su questo territorio.

Al colle, come via più breve ed agevole, si accede tramite un sentiero panoramico che parte da Denzano, antico e piccolo borgo in provincia di Marano. Nella descrizione dell’evento si consigliava di attrezzarsi con una coperta da stendere sul terreno, per mancanza di sedie, e così abbiamo fatto, e in questo clima famigliare, immersi nella natura sotto la cupola di un tramonto turneriano abbiamo ascoltato i versi di giovani poeti modenesi alle prese con le loro prime pubblicazioni.

Parlo dei talentuosi Marco Bini, Giorgio Casali, Giovanni Fantasia, Guido Mattia Gallerani, Laura Solieri, Mariadonata Villa e Kabir Yusuf Abukar. Il tutto è terminato con un brindisi alla poesia presso l’Associazione culturale e gastronimica Alla Locanda di Denzano.

Sul sentiero del ritorno, mentre il cielo si chiudeva e venivamo piano piano inghiottiti dal buio, abbiamo intervistato uno dei poeti: Kabir Yusuf Abukar, poeta di 25 anni laureato in filosofia e appassionato di cinema e di festival cinematografici, che in discesa e godendoci la sensazione del camminare, ci ha raccontato il suo percorso poetico e le caratteristiche della sua poesia.

 

Ciao Kabir,
raccontaci del tuo rapporto con la poesia e del percorso che ti ha portato alla pubblicazione del tuo primo libro.

Il mio rapporto con la poesia comincia alle superiori, durante le lezioni di italiano dove ho conosciuto i poeti da programma scolastico. I primi che mi hanno folgorato sono quelli dell’ottocento, i romantici, e Ugo Foscolo in particolare.

Il mio percorso è nato un po’ così, emulando questi scrittori classici, poi, grazie all’incontro e alla lettura dei poeti contemporanei è subentrata una modalità di scrittura diversa, più adeguata al linguaggio dei tempi. Ho poi cominciato a lasciare qualche primo abbozzo, qualche biglietto, al poeta Roberto Alperoli, il primo a cui mi sia rivolto per avere un colloquio poetico, e che abbia creduto in qualche mio scritto, fino a spronarmi, a livello amicale, a continuare a scrivere. Poi ho conosciuto il poeta modenese Marco Bini, che ancora di più mi ha aiutato a fare chiarezza tra i miei testi e a spingermi nel propormi al Premio Rimini, durante il quale nel 2016 sono stato selezionato tra i finalisti che hanno poi avuto la possibilità di pubblicare una loro raccolta. Prima di questa opportunità per me era solo un gioco lo scrivere in versi, invece ora è diventato qualcosa di diverso.

 

Difficoltà e soddisfazioni di essere un poeta emergente.

La principale difficoltà credo stia nel farsi capire e fare in modo che il proprio percorso poetico venga recepito, può essere questa la difficoltà di molta poesia emergente. La soddisfazione invece è che questo venga riconosciuto, l’avere un pubblico recettivo che riconosce una tua certa predisposizione poetica.

 

Qual è il senso del tuo far poesia?

Premettendo che non mi sono messo a tavolino e ho detto “adesso mi metto a fare poesia” i testi di REFLEX nascono da vita vissuta, non dall’intenzione di fare poesia, nascono più da una necessità intima, da cose che mi capitavano e nel tentativo di verbalizzarle la mente si divertiva a farlo in questa forma. La mia poesia ha principalmente una natura ludica che si realizza al suo interno con giochi di parole, giochi di suono, figure retoriche ecc… poi alcuni componimenti hanno una componente di riflessione più profonda e diversa.

 

Nella pratica

Seguirti per anni
e per anni voltarmi
nel vederti voltarti
impugno la matita.*

[fiatone]

 

Hai parlato di REFLEX, il tuo primo libro. Vuoi parlarci della scelta del titolo e della sua struttura?

REFLEX prima del Premio Rimini non c’era. Isabella Leardini, direttrice del premio mi ha spinto a cercare un titolo per i miei componimenti sparsi perché in finale avrei dovuto proporre una raccolta. In quel periodo avevo un interesse particolare per la fotografia, nonostante non ne fossi competente, e a sentimento scelsi il titolo REFLEX scoprendo che si prestava bene anche per la suddivisione delle sezioni, che sono cinque. Ogni sezione è intitolata come una funzione tecnica della macchina fotografica, come ad esempio “Av Program. Programma valore dell’apertura” una modalità di scatto che a livello tecnico permette di regolare in maniera manuale l’apertura del diaframma. Nel significato meta-testuale rappresenta l’apertura al mondo, all’interpretazione delle cose. Il capitolo che mi piace di più è l’ultimo, “Tv Program. Programma valore dei tempi”, che rappresenta la funzione che regola lo scatto tramite l’impostazione dei tempi, e a livello meta-testuale rimanda al valore del passato. Il primo testo di questa sezione è dedicato a mio nonno Giorgio, e l’ultimo testo è dedicato a mia nonna Olga.

Tra questi ragazzi di via d’Avia
anch’io, a sud di questo posto
allontanato dentro la memoria
chiuso nella conta alla rovescia
ho avuto tempo di nascondermi
non muovermi o grattarmi con un dito
ma lascio che mi vedano se vogliono
le punte dei piedi oltre le tende.*

[Accendiamo le torce del cellulare. La strada è diventata completamente buia]

 

Ho individuato alcuni temi ricorrenti nella tua opera, come il silenzio/mutismo, il vuoto, la ricerca di se stessi negli altri. Vuoi parlarcene?

È vero, e per farla breve sono temi riconducibili a situazioni e momenti esistenziali vissuti e attraversati, e l’uscita di questi testi ha avuto un effetto terapeutico. Sono partito da lì per elaborare momenti di questo tipo.

La mia ombra si vede dappertutto, sì
è l’ultima uniforme che mi resta, che
mi lega a questa forma esterna detta
corpo, ma che dentro come un guanto
ha il suo rovescio: spazio vuoto, buio.
Sono solo il pezzo d’ombra, pazzo dentro
che mi marchia, mi condanna a questa
irraggiungibile uguaglianza con il mondo.
Sciolta questa pena mando nella gola
proiettili di carta per la calma che divora
giorno dopo giorno i giorni fossili di prima
quando avevo dodici anni e ancora la saliva.*

 

La prima cosa che ho notato del libro è il contrasto tra il tuo nome non proprio nostrano, e la scelta della citazione di Rentocchini come incipit in purissimo dialetto: scréver l’è ander in seirca. Vuoi parlarci di queste due anime?

L’ exergo del libro è tratto da Rentocchini, poeta locale che scrive prevalentemente in dialetto sassolese, e richiama ciò che io credo essere molto forte nella mia dimensione culturale: il legame con il passato e quindi con i nonni e con la lingua dei nonni, il dialetto. Ho creduto che fosse importante per me metterla ad exergo principalmente perché io non mi sento altro che modenese, non ho la capacità e la predisposizione per sentirmi altro, sono nato a Modena, avendo una madre e la famiglia materna con la quale sono cresciuto, emiliana. Non credo quindi esistano veramente due anime, un doppio, sia nella raccolta che nella mia esistenza personale, piuttosto penso che si tratti proprio di accorgersi di una storia personale che è andata in un certo modo, e non c’è una natura doppia ma c’è probabilmente solo una storia.

 

Per lo più le tue poesie sono piccoli scatti di intimità, ma si distingue un filo rosso che lega tutte le ultime poesie di ogni capitolo. In queste il tono cambia e il tema diventa quello delle migrazioni. Vuoi parlarcene?

Mi sono posto l’obiettivo di essere più particolare e preciso possibile nel trattamento di questo tema, quello delle migrazioni. La maggior parte dei testi che si trovano alla fine di ogni sezione in realtà ha a che fare con il tele-vedere o il vedere a distanza il processo migratorio, volevo focalizzarmi sul particolarismo del vedere il processo migratorio dalla nostra parte e dai nostri occhi, che implicasse anche un mezzo di comunicazione che è quello del televisore. L’ultima poesia della raccolta infatti parla soprattutto di come viene recepito il fenomeno del processo migratorio e dell’influenza che ha su di noi. La poesia invece che chiude la prima sezione richiama al confine tra Serbia e Ungheria dove è stato costruito un muro di filo spinato per bloccare il processo migratorio e che si conclude versificando quella che è una modalità di fare telegiornalismo in maniera retorica.

 

Credo sinceramente che tu abbia trovato un buon modo per spiegare il fenomeno migratorio, i tentativi di immedesimazione finiscono con lessere sempre un pogrotteschi. Invece tu parti da noi, dalla comunicazione del fenomeno tramite la televisione.

Sono testi di cui non sempre sono soddisfatto perché talvolta mi illudo di vederci anche io abbastanza retorica, ma sono fermo sulla posizione che non sia retorica, ma sia veramente qualcosa di politico. È una necessità politico-culturale decidere di schierarsi e dire le cose come stanno.

Eccoci arrivati: il molo ancora caldo
accoglie altri nei vapori, accartocciati
zuppi sull’asfalto: i vasi dilatati
il corpo flesso, gli occhi chiusi
cuciti dal sale e il sole
sadico li cuoce ancora.
Ma venga, venga un’ora
in cui brucino a noi gli occhi
e si chieda, all’ultimo, in ginocchio
salva almeno la coscienza.*

 

Siamo arrivati a Denzano. Come ultima domanda prima del rinfresco ti chiedo se hai qualche modello di riferimento, o qualche autore a cui sei particolarmente legato.

Dopo i romantici e i poeti del primo novecento, ci sono i classici ed imprescindibili come Montale, Caproni, Pavese, fino a Sereni, Raboni, Pagliarani, ai quali si legano voci della contemporaneità: Magrelli, Cecchinel, ma anche Valentino Zeichen del quale mi colpiscono la semplicità, l’astuzia poetica e l’ingegno. Poi sicuramente i poeti del nostro territorio come Rentocchini, Alperoli, Bertoni, Tavilla. Ma ancora, e forse molto più imprescindibile, è la molta musica italiana ascoltata negli anni, testi inclusi: da Mogol e Battisti, Mina, fino ad arrivare ai cantautori della scena indie nazionale: su tutti i testi di Alberto Ferrari dei Verdena. Credo di non compromettermi troppo nel dire che in generale gran parte dei miei componimenti sia influenzata dalla canzone.

Spesso in auto al posto passeggero
guardo fuori i pali delle luci, le bici:
mi ricordano le tue iniziali. Nel silenzio
che porto fino all’arrivo, lo sguardo
mi si perde sui filari: con gli occhi ripeto
il movimento circolare degli anni
come se saltassero la corda nel vigneto.*

 

*da “REFLEX”, Kabir Yusuf Abukar, Lieto Colle, 2017