Si sta preparando al terzo dan di Shodo (letteralmente arte della scrittura), ovvero l’arte giapponese della calligrafia derivata dalla corrispondente arte cinese di cui giustamente va molto orgoglioso; fotografo con un punto di vista impareggiabile che l’ha annoverato vicino ad altri di fama internazionale; pittore che ha lasciato i pennelli veri per quelli ‘virtuali’  e disegna ora su un iPad (cosa che ha fatto per quasi tutta la durata dell’intervista) diavoli ‘A Devil a Day Kees The Doctor Away’ che giornalmente ha postato per un lungo periodo su Facebook. Si è laureato a Firenze in architettura negli anni ’70, è graphic designer ed è tra i fondatori agli inizi degli anni ’80 del Kennedy’s Studio, insieme a Elisabetta Ognibene e ad Oscar Goldoni (fucina di buona grafica e di giovani talenti): il suo nome è Filippo Partesotti. Siamo andati a trovarlo nella sua casa-studio di Modena (un villino di rara bellezza costruito negli anni ’50) per farci raccontare come, con il suo grande bagaglio culturale ed artistico, sia riuscito a trasformare il punto di vista e l’atteggiamento nei confronti della grafica sia sul territorio che a livello nazionale ed internazionale.

Nasci come architetto, lavori come graphic designer, poi ci sono la fotografia, la pittura, la calligrafia. Tutto questo fa sì che esista un artista pieno di sfumature.

“E, aggiungerei, molto fuori dalla dimensione attuale. Questi sono anni in cui bisogna essere specializzato in qualcosa di preciso se no il mercato non ti coglie, perché sei poco classificabile. A me invece questa dimensione piace molto. Può essere un limite in termini professionali, io però mi vanto di questo eclettismo”.

 

Quando ti chiedono che mestiere fai cosa rispondi?

“Inizio a pensarci su e mi scopro a non sapere cosa dire. Allora sai cosa facciamo? Ti leggo cosa c’è scritto sul mio biglietto da visita: ‘architetto e visual designer’. Questo è il mio vero mestiere. Anche se mi resta sempre molto la voglia di fotografia, calligrafia, disegno, pittura, che sono più liberi”.

 

Parlaci della calligrafia giapponese. Come è nata questa passione?

“Dopo anni di grafica fatta solo con il disegno, quando sulla scrivania non c’era il computer ma matite, pennelli e tempere, è arrivato all’improvviso il pc e io ho smesso di usare la mano. La calligrafia orientale me l’ha restituita. Oltretutto, essendo di base costruita su inchiostro nero, carta bianca e sigillo rosso, ci muoviamo tra le fondamenta della grafica, del segno più puro. L’obbligatorietà gestuale, l’istintività del gesto mi hanno ridato una potenza e libertà del segno che stavo perdendo. Con la calligrafia si creano opere d’arte potentissime con un tocco, la mano disegna da sola e la testa non sa quello che sta facendo. A noi ‘bruti’ occidentali i giapponesi hanno insegnato che bisogna lavorare con la china sciolta, se no si può rompere la carta. Questo ti obbliga ad aspettare 40 minuti per fare un gesto che dura un decimo di secondo. Però quei 40 minuti servono a svuotare la testa, ti annoi talmente che finalmente sei vuoto. Ecco, quello è il momento in cui si raccontano solo gli occhi, parlano solo gli occhi. E’ la mia parte d’arte che non vuole dire nient’altro di quello che vedi”.

 

E la fotografia? Non hai mai pensato di unire questi due mondi, contaminarli?

“No, perché un lavoro così mi riporterebbe alla grafica. L’ho già fatto: l’anno scorso alla Fondazione Fotografia durante la mostra di Hiroshi Sugimoto mi hanno chiesto di fare una dimostrazione di calligrafia. Lì su una mia foto ho fatto calligrafia orientale, ma per me è stato un intervento di grafica. Diciamo che non mi sembra così significativo usare una tecnica rispetto a un’altra. Voglio essere libero di usare tutte le tecniche, guardando solo al risultato. Tanto è già stato fatto e visto di tutto”.

 

In fondo la vera potenza sta nella poesia, nella capacità di parlare al cuore.

“Esattamente. Ma quello puoi ottenerlo usando di tutto. La poesia c’è e basta, non perché uno l’ha voluta mettere o costruire. E poi c’è la qualità dello sguardo, che è quello che ti fa comunicare bene qualcosa, che ti fa vedere l’immagine che c’è in tutto. Una foto per esempio: la foto c’è, è tutto lì e tu devi solo prenderla. Io non ho niente da dire, ho solo gli occhi, le cose da vedere”.

 

E ora che viviamo in un mondo saturo di immagini?

“Io non ho nostalgia del tempo andato, però penso una cosa: così come sono felice che tutti possano scrivere poesie, l’importante è che stiano nel cassetto, così sono entusiasta che oggi tutti possano produrre tante immagini, ma molte sarebbe bene che restassero nel cassetto. Oggi tanta gente lavora con le immagini, ma in pochi conoscono quello che è già stato fatto e quindi potrebbero essere in grado di cambiarlo, di evolvere… tutto lì. Forse è banalmente una questione di passione, che continua a essere una cosa rara”.