A cura di Giulia Caverni e Simona Palmieri.
Quando Emilio Mazzoli portò Jean-Michel Basquiat a Modena avevano rispettivamente 39 e 21 anni, e Basquiat non aveva ancora toccato quel successo che da lì a poco lo avrebbe travolto. Emilio era un gallerista stimato, ma che trattava arte contemporanea: un genere che per la sua natura fa fatica ad essere compreso da quei più che hanno bisogno di tempo per abituare lo sguardo.
Emilio notò le opere del giovane artista durante la mostra “New York New Wawe” al P.S.1 di New York su invito del curatore Diego Cortez.
In quel grande edificio, ex scuola dismessa che oggi è parte integrante del Mo.Ma, fra una ventina di artisti che rappresentavano la cultura underground dell’epoca Mazzoli cercava la novità: fu attratto dalle opere di Jean-Michel Basquiat, ai tempi SAMO, pseudonimo di Same Old Shit, creato col compagno di scuola Al Diaz ai tempi delle superiori.
Il gallerista andò via da New York, determinato nel proporre quella nuova rappresentazione della realtà, tornando a Modena con una ventina di opere che ai tempi pagò poco più di 10 mila dollari; oggi l’opera Untitled, 1982 è stata battuta per più di 110 milioni di dollari.
Il 23 Maggio del 1981 la galleria Mazzoli inaugura la prima personale di Jean-Michel Basquiat in Europa; nonostante la vendita totale delle opere, la mostra non piacque e le critiche si sprecarono.
Tra i faldoni di Enzo Cucchi, le foto di Franco Vaccari e un enorme quadro dell’artista cubano Ariel Cabrera Montejo, Emilio ci racconta di quel periodo: del vento di novità che soffiava oltreoceano e delle difficoltà nel farlo soffiare all’interno di una visione provinciale che si conserva fra sé e i soliti quattro.
Nel parlare apprendiamo quanto anche ai tempi fosse difficile far comprendere il valore non solo delle iniziative ma anche dei protagonisti di quelle stesse iniziative.
Rimarcando l’urgenza di prendere seriamente in mano una volta per tutte un settore, quello dell’arte contemporanea, troppo spesso sottomesso a ruoli clandestini, senza comprendere che l’arte è un prodotto della storia e in quanto tale dovrebbe essere trattato seriamente anche dal punto di vista finanziario e non penalizzato da un sistema economico e fiscale con tassazioni elevate non detraibili.
Questo sistema, miope nel vedere il potenziale economico nell’arte contemporanea oltre a rimanere indietro rispetto a tanti altri paesi, induce gli artisti e gli operatori culturali al collasso.
Una galleria è una fabbrica di cultura e come tale dovrebbe essere messa nelle condizioni per poter lavorare e creare lavoro.
D’altronde eliminando l’insegnamento della Storia dell’Arte dai programmi scolastici sarà sempre più difficile trasmetterne il valore, aumentando il divario fra i pochi che per un motivo o per l’altro ne fruiscono e chi no.
Come mai hai deciso di non organizzare nulla per questo anniversario?
Perché non era necessario.
La mia è una galleria che guarda avanti, ho fatto quello che dovevo fare al momento opportuno. La mostra di Basquiat è stata fatta perché era giusto farla in quel momento storico.
Partiamo dall’inizio: cosa ricordi della mostra “New York/New Wave” nella quale hai avuto il primo incontro con Basquiat?
Con la galleria ho sempre cercato di proporre il contemporaneo e in quel momento ci fu un grande cambiamento nel mondo dell’arte.
In quel periodo si lavorava principalmente sul Concettuale, sull’Arte Povera e sulla Land Art: tutti movimenti artistici che creavano una grande problematica a livello espositivo. Perciò con un gruppo di amici, tra cui Enzo Cucchi, Sandro Chia e Achille Bonito Oliva (per dirne alcuni), avemmo la grande intuizione di rimettere in gioco la pittura.
Quello fu un successo inspiegabilmente enorme, tutto il mondo si rivolse alla mia galleria e seguì il nuovo percorso che stavamo tracciando.
Dopo la partecipazione alla Biennale di Venezia, a mostre internazionali in città come Amsterdam, Basilea e Berlino, ci chiamò l’America.
Io non amo molto muovermi, ma decisi comunque di andare.
Ebbi la grande fortuna di frequentare il mondo culturale newyorkese e in quel contesto conobbi Diego Cortez. Proprio in quel momento venne organizzata una grande mostra sui pittori di strada in una scuola dismessa del Bronx. Andai alla mostra con Cortes e vidi Basquiat. Mi piacque molto.
Chiesi a Cortes come potevo fare per averlo e lui, che in quel momento era il suo procuratore, mi portò nel suo studio.
Gli dissi: “Mi piaci, ti faccio subito una mostra a Modena”. Così pagai il viaggio a Basquiat e Cortes e iniziai ad organizzare la mostra in galleria.
Decidi di portare Basquiat a Modena. Avevi già intravisto un mercato per la sua arte? Com’era in quel periodo il mondo dell’arte italiano e soprattutto modenese? Era pronto per uno shock del genere?
Il mercato dell’arte all’epoca non esisteva. In galleria avevo tantissimi lavori meravigliosi e li dovevo tenere perché nessuno li voleva.
Voglio darti un’idea di com’era il mondo dell’arte a Modena in quel periodo: quando hanno organizzato la mostra Transavanguardia: Italia/America alla Galleria Civica il museo non ha voluto comprare nessuna delle opere esposte. Se l’avesse fatto, oggi avrebbe una collezione importantissima, ma allora era tutto un fatto di conoscenze.
Per quanto riguarda la mostra di Basquiat, non penso che il pubblico fosse pronto perché creò grandi problemi, soprattutto per la cultura locale che era molto provinciale e conservativa, anche gli artisti erano così. Andavano in giro a dire “Mazzoli espone i negri”, quando Mazzoli esponeva semplicemente un uomo.
Come ha reagito modena?
Modena non ha reagito. Io consigliavo ai miei amici di comprare Basquiat perché era bravo e costava poco. Costava talmente poco che li ho venduti tutti.
Molti hanno iniziato a vendere i suoi quadri dall’anno successivo perché valevano già dieci volte tanto. Chi li ha tenuti e li ha venduti adesso ha fatto una fortuna.
Se all’epoca mi avessero detto che Basquiat sarebbe morto dopo tre o quattro anni ovviamente non li avrei venduti, ero astuto anche io.
Ma io non voglio essere astuto, avevo semplicemente una passione, un occhio per l’arte, in dialetto si chiama usta.
Oggi però è difficilissimo beccare un artista giovane perché le grandi gallerie appena lo vedono gli fanno un contratto poi, se va bene, lo tengono, se non va bene lo buttano fuori dal mercato.
Pensi che qualche artista modenese sia stato direttamente influenzato dalla visione delle opere di Basquiat? E viceversa, lui aveva visto altri artisti al lavoro?
Ad un anno dalla prima mostra di Basquiat iniziammo a preparare la seconda. In quel periodo lavoravo in un grande laboratorio di un restauratore modenese, dove Schifano lavorava sui suoi quadri di enormi dimensioni.
Io credo che Basquiat sia stato influenzato da questi grandi quadri. Tant’è che usò alcune delle tele vuote che trovò in quel laboratorio per dipingere i quadri che oggi hanno battuto tutti i record all’asta.
In quel periodo la tua scuderia era definita da artisti con uno stile ben preciso, come mai Basquiat?
All’epoca avevo due artisti americani che lavoravano con questo stile, uno era Brett De Palma, l’altro era Basquiat.
De Palma fu scelto per Documenta a Kassel, Basquiat no. Oggi Basquiat ha il successo che conosciamo, De Palma non lo conosce quasi nessuno. Il mondo dell’arte è imprevedibile.
Basquiat era un bravissimo artista, era molto attento al contemporaneo, era nero, ma un nero colto perché faceva parte di una certa èlite di New York. Quando è morto è diventato un fenomeno economico, ma questo in realtà prescinde dal vero valore dell’arte, dal vero valore dei quadri.
Penso che se avesse vissuto, con i problemi che aveva, ci sarebbe il mondo infestato di quadri ed economicamente non varrebbe più niente: come è successo ad alcuni artisti italiani, come Schifano, che aveva prodotto molte opere e aveva le stesse abitudini.
Naturalmente i capolavori sarebbero rimasti, ma probabilmente il suo lavoro sarebbe finito in mano alle persone sbagliate.
Dopo Basquiat non hai più trattato artisti provenienti dal mondo del writing, come mai? Non c’è mercato?
Mi venne a trovare Keith Haring a Modena ma gli dissi che avevo già esposto Basquiat.
Dopo mi sono interessato ad altri artisti. Ho fatto la prima mostra in Europa di Alex Katz: una mostra incredibile, un successo enorme; poi Robert Longo, Timothy Greenfield Sanders, grandissimo fotografo.
Il mercato poteva anche esserci ma è finito quando è nato. Basquiat era il migliore, insieme a Keith Haring, ma tutti gli altri, come Rammellzee, erano di contorno.
Emilio che ci dici di Francesca Alinovi? Fu una delle prime a interessarsi al writing e a portarlo in Italia.
La grande e geniale critica bolognese di quel periodo era Mariuccia Casadio che era a New York e faceva parte di quel giro, interessandosi al graffitismo; l’Alinovi se ne interessò almeno un anno dopo.
Com’è cambiato il mondo dell’arte e delle gallerie da allora ad oggi?
Credo che oggi ci sia “troppo pieno” nel mondo dell’arte, troppi ruoli, troppi curatori, critici, tutte persone che lucrano senza sapere veramente lavorare.
Le gallerie oggi sono penalizzate da un sistema economico e fiscale violento, mentre a tutti quelli che girano intorno all’arte è permesso commerciare e lucrare sui quadri senza pagare una lira di tasse. Questo diventa un problema nel momento in cui lo Stato non riesce a capire la differenza tra una galleria indipendente che crea lavoro e una galleria che fa dell’antiquariato, c’è una grossa differenza.
La galleria che produce antiquariato è una bottega, quella che produce lavoro è una fabbrica di cultura, per cui dovrebbe avere degli incentivi per poter lavorare al meglio producendo libri, cultura e tracciare un sentiero.
Certamente non è facile; molte persone intorno a me hanno provato a fare quello che ho fatto io, ma sono tutti falliti dopo poco. Questo perché io l’arte l’ho sempre comprata.
Ho sempre pensato “se vendo arte devo essere il primo a rischiare” e la mia fortuna, anche economica, deriva dal fatto che se non sono riuscito a vendere dei quadri poi mi sono rimasti.
Annina Nosei: un nome rinomato a New York è stata la gallerista di Basquiat. Com’era il tuo rapporto con lei?
Conoscevo Annina Nosei. Basquiat espose nella sua galleria poco prima della seconda mostra che stavo preparando per lui in Italia.
Ricordo che mentre stavamo ultimando il catalogo la Nosei venne da me dicendomi che voleva una percentuale sulle vendite di Basquiat. Io gli dissi con convinzione che non le dovevo nessuna percentuale perché l’artista era stato scoperto da me. Al che gli regalai tutti i quadri che avevo, senza farmi pagare, e feci saltare la mostra.
Quella fu un’ottima scelta perché quello che interessa a me non è mai stato il denaro, ma il lavoro, e soprattutto che il lavoro venga fatto bene. D’altronde una galleria di Modena non può competere con una galleria di New York.
In questo modo a Basquiat venne a mancare un catalogo importante. Lo rividi dopo alcuni anni, quando era già entrato nello star system ed era caduto nella tossicodipendenza più disperata: era già distrutto e abbandonato da tutti.
Nel libro di Michel Nuridsany si citano alcuni scambi che Basquiat ha avuto con un intervistatore. Sosteneva di vedere circolare tra i collezionisti alcune opere realizzate a Modena che non erano state catalogate e dalla cui vendita, per questo motivo, non aveva ricevuto nessun compenso.
Estratto dal volume di Nuridsany:
Molto tempo dopo, Henry Geldzahler intervisterà Basquiat sulla sua esperienza a Modena. Lui, all’inizio, ripeterà ciò che aveva già detto ad altri dopo il suo ritorno in Italia.
Henry Geldzahler: Ti sei trovato bene in Italia, quando sei andato per la tua prima mostra a Modena?
Jean-Michel Basquiat: È stato divertente perché era la prima volta, ma dal punto di vista finanziario è stata un’idiozia.
HG: Intendi una fregatura?
J-MB: Si, è riuscito a tirare su un bel gruzzolo.
HG: Ha rivenduto le opere? Stanno circolando?
J-MB: Suppongo di si.
HG: Le hai più viste? Le riconosceresti?
J-MB: Le riconosco. Sono sempre un po’ scioccato quando le vedo.
Sia che fosse scioccato, o che si sentisse fregato, il gallerista aveva venduto delle opere che Jean-Michel Basquiat gli aveva lasciato in galleria senza averle catalogate e aver preso nota di quante fossero.
Sono tutte falsità, io ho comprato i suoi lavori pagandoli. Non avrei nessun problema a dichiarare di possedere venti quadri di Basquiat, ma non è così.
Questo mondo è pieno di bugie.
Ti faccio un esempio: io ho pagato il primo viaggio di Alighiero Boetti in Afghanistan; se dicessi che costava due lire e che ho cento tappeti o cento mappe in cantina chi potrebbe metterlo in dubbio?
La verità è che rividi Basquiat dopo quattro anni a New York. Ero con mia moglie e mi ricordo che mi abbracciò distrutto. Quando è venuto in Italia l’ho pagato 10 mila dollari per il suo lavoro, oltre a coprire le spese di viaggio e alloggio per lui e il suo assistente. L’ho stra-pagato.
Ci racconti di quelle due settimane in cui Basquiat girava per Modena?
In quel periodo girava con le sue bombolette, disegnava i suoi tag dietro ai cartelli stradali, andava a ballare al Graffio e girava con la sua radio.
Era un bellissimo ragazzo. Una sera cenammo al Tucano, ma non c’era nessuno del mondo della cultura: nessuno era interessato a vedere un giovane. Poco dopo sarebbero stati tutti presenti.
A Modena dagli anni Venti agli anni Quaranta c’era una borghesia illuminata. Basti solo pensare alle produzioni di riviste e libri nel ‘900, penso a Formigini, a Delfini, alla saletta del Bar Nazionale che esponeva Vedova e Morandi.
A Modena allora esisteva il tampel: voleva dire fare dell’ironia sulle persone. C’erano riviste di satira straordinarie, Tirelli ad esempio, faceva le illustrazioni del Duca Borso.
Questa borghesia è venuta presto a mancare, si è chiusa negli studi e si è messa fare soldi.
Ricordiamo che Basquiat chiese di poter realizzare due muri a Modena, ma il comune non ha dato la sua approvazione, come mai?
Il rapporto con le istituzioni è sempre complicato.
Ricordo la vicenda del cavallo di bronzo di Paladino. Era una scultura pensata e realizzata per la città. In quel caso i giornali hanno attaccato sia me che il Comune. Questo perché quando parli di cifre le persone hanno paura, “l’uomo della strada” sente parlare di un cavallo di 5-10 metri che costa 300 mila euro e si spaventa per il costo, quando in realtà solo la sua fusione sarebbe costata altrettanto.
Le persone non sanno valutare le opere, una brutta opera che costa 500 euro costa troppo!
Anni fa andai insieme a Schifano al Foro Boario e a lui venne l’idea di mettere un quadro in ogni studio del Foro, per un totale di 20 quadri di grandi dimensioni. Quell’operazione sarebbe costata 20 milioni tutto compreso, un’inezia in confronto al valore reale delle opere, ma non è stata accettata.
Per la mia galleria la vita di provincia è sempre stata un problema, perché qui la politica è la più grande nemica della cultura.
La politica modenese è sempre stata gestita privatamente, se qualcosa usciva dai loro canoni non andava bene: spesso accade che un ingegnere o un geometra del comune si mettono contro i progetti parlando di cose che non conoscono.
Nel caso di Basquiat avrebbero solamente dovuto installare il ponteggio a loro spese, ma non lo fecero.
Prima parlando di Mario Schifano hai toccato l’argomento della droga negli anni ’80. Anche a Modena girava parecchia eroina, sappiamo che Basquiat ne faceva larghissimo uso.
Qui a Modena non ne faceva uso. Fumava, ma erano “fatti suoi”. Non era ancora caduto nella tossicodipenza come alla fine della sua vita. Quando era a Modena era troppo giovane, troppo bello e troppo sano.
Al tempo tutti i giovani a New York fumavano. Mi ricordo che una volta chiesi a Schifano: “Mario perché fai queste cose?”
Lui mi rispose: “Caro Emilio la droga è un vizio, come mangiare troppo o bere troppo: quando ci vai dentro, ci cadi”.
A proposito di America, nel ‘900 il fulcro dell’arte passa dall’Europa a oltre Oceano. Dopo la crisi del 1929, operazioni politiche come il New Deal aiutarono New York ad aggiudicarsi il primato di nuova culla della cultura.
Dopo la guerra, specialmente all’inizio degli anni Sessanta, l’America prende coscienza di sé escludendo Parigi e l’Italia e mettendo al centro New York.
Sull’Arte Concettuale e su quei movimenti artistici che richiedono cultura le università Americane sono molto più avanti delle nostre: tutte le facoltà hanno un reparto dedicato all’arte.
La grande intuizione della Transavanguardia è stata quella di rimettere in gioco quello che l’Italia sa fare: siamo la capitale del mondo nella pittura, nella scultura, nell’opera manuale, nella fantasia.
Tutt’oggi ci sono Paesi in cui la politica va incontro all’arte. L’Italia è ancora il Paese dei comuni amministrati da partiti diversi, che si basano sulle conoscenze, escludendo il valore.
All’epoca c’era un bravissimo giornalista, Valerio Riva che parlava già di questi fenomeni modenesi, legati alla Transavanguardia, ma qui le persone salirono sulla “barca del vincitore” solo quando questa era già in viaggio: forse non sapevano leggere i giornali.
Il settore artistico-culturale Italiano è un settore che soffre già da tempo, anche prima del covid. Che piani potrebbero attuare le istituzioni per dare un supporto concreto e duraturo?
L’America sostiene i propri artisti come fanno i Paesi Anglosassoni, la Russia e tutti i Paesi più avanti. L’Italia ha sempre pensato che l’arte fosse qualcosa di clandestino, di sbagliato. Non ha mai pensato all’arte come una disciplina che si studia a scuola, alle gallerie come a luoghi da frequentare come i teatri e i cinema.
Come diceva Schifano in suo quadro: “Bisogna farsi un’ottica” se la gente vede delle mostre ben studiate riesce a farsi un’ottica.
Se, ad esempio, compri un bel quadro e uno brutto, quello bello esclude automaticamente quello brutto.
Si tratta di educazione!