Abbiamo fatto due chiacchiere con Pietro Rivasi, classe ’78, socio della Galleria d’Arte Contemporanea D406, promotore e organizzatore di eventi tra cui, per diversi anni, ICONE e curatore della mostra 1984. Evoluzione e rigenerazione del writing a Modena dal 23 giugno al 18 settembre 2016.

 

Per iniziare, sarebbe bello mettere i puntini sulle i; spesso oggi si parla di graffiti, murales, street art senza cognizione di causa. È possibile fare un chiarimento su questi diversi termini?

Non credo esistano definizioni univoche e universalmente accettate, soprattutto a causa delle infinite eccezioni che si possono riscontrare all’interno delle singole categorie che hai citato, eccezioni dovute in gran parte alla cross-contaminazione che le diverse branche dell’arte urbana hanno sviluppato nel corso degli anni. Cercando di essere il più generico e accurato possibile, direi che possiamo innanzitutto distinguere due macro gruppi, quello delle arti urbane non-commissionate (gli interventi vengono realizzati senza richiedere alcuna autorizzazione) e quelli commissionati (ovvero concordati con qualsivoglia autorità/proprietà del bene su cui si realizza l’intervento).

Alla prima categoria appartengono sia i graffiti (o meglio style-writing o semplicemente writing) che la street art, alla seconda il muralismo; più nello specifico il writing, come suggerisce la parola stessa che significa scrivere, ha come soggetto la scrittura, ripetuta ossessivamente ed elaborata, del nome di chi lo pratica (solitamente la tag, ovvero lo pseudonimo dell’artista); è un movimento chiuso che non cerca di comunicare se non all’interno del gruppo stesso, fortemente codificato ed “aggressivo”/invasivo, che nasce tra Philadelphia e New York alla fine degli anni 60. Ha come strumenti d’elezione vernici spray e marker indelebili.

La street art utilizza al contrario un linguaggio più aperto ed accessibile al pubblico ed una infinita varietà di mezzi che vanno dalla classica vernice a base acqua alle installazioni luminose passando per i collage e quant’altro. Non credo si possa definire con certezza la “nascita” della street art, quello che si può affermare è che questo filone dell’arte urbana ha subito una forte crescita con l’avvento del writing ed in particolare alla fine degli anni 90, quando moltissimi “writer puri”, hanno iniziato ad utilizzare tecniche e strumenti diversi da quelli classici ed a rimpiazzare la loro firma con un logo, o un alter ego figurativo, compiendo una scelta stilistica molto importante.

Per muralismo, o meglio nuovo muralismo, possiamo intendere invece un fenomeno molto recente e completamente istituzionale, figlio dello sdoganamento e della “commercializzazione” dell’estetica della street art che ha portato molti artisti nati dipingendo per strada, a dedicarsi alla decorazione di pareti all’interno di festival o su commissione di privati (con tutti i limiti e vantaggi che ciò comporta), andando a generare un fenomeno per certi versi simile a quello del muralismo sudamericano degli anni ’20 piuttosto che italiano degli anni ’70.

L’incredibile interesse che si è sviluppato negli ultimi anni da parte di gallerie ed istituzioni pubbliche verso questo fenomeno che sempre più spesso viene utilizzato per promuovere mostre ed operazioni di vera o presunta riqualificazione degli spazi urbani, ha incentivato la nascita di una miriade di festival ed un grande incremento delle esposizioni dedicate agli artisti che vi si dedicano, invogliando un sempre maggiore numero di disegnatori/illustratori a cimentarsi con la pittura murale, pur non avendo un background di writing o street art.

 

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Nella tua esperienza, hai collaborato con diverse testate e fanzine, scrivendo articoli di settore. Vuoi parlarcene un po’?

Le mie collaborazioni più importanti con “media” legati al writing sono state quella con Stradanove.net, portale web coraggiosamente finanziato dalla regione Emilia Romagna, e Garage Magazine, una vera e propria rivista di settore.

Stradanove è stata un’esperienza fondamentale credo sia per me che per la “scena” in quanto nella seconda metà degli anni 90, quando la rubrica sul writing è partita, non erano molti i siti che se ne occupavano (su tutti ricordo Artcrimes) e questo mi ha permesso di entrare in contatto con moltissimi writer. Il web permetteva, grazie ai costi ed ai tempi di pubblicazione ridotti, di fare una selezione più “blanda” del materiale e di poter entrare in contatto con tutto il mondo in maniera molto più veloce, economica ed immediata rispetto al metodo “classico” dello scambio “fisico” di foto per posta e pubblicazione cartacea.

In redazione avevamo scanner ed una macchina digitale che portai anche in interail e con la quale ero riuscito a fare diversi piccoli reportage in giro per l’Italia e l’Europa. Per un periodo, il portale ha avuto un successo così rilevante da diventare un punto di riferimento non solo per la scena ma anche per le forze dell’ordine che lo consultavano per le indagini giudiziarie, pratica ora diventata molto comune. Questo, il proliferare di decine di altri siti web dedicati di pari passo con la diffusione della tecnologia ed altre situazioni varie ed eventuali, ha portato un po’ alla volta al terminare l’esperienza, fino alla definitiva chiusura dopo circa 10 anni.

Garage magazine invece era una rivista nata verso la fine degli anni ’90 come classica fanzine di graffiti con foto in parte in bianco e nero ed in parte a colori che raccoglieva materiale principalmente dalla zona di Milano e dintorni, per poi evolvere in un magazine molto più curato vario nei contenuti.

Garage fu una delle prime riviste di writing a dare spazio alla “street art” , a pubblicare parecchie foto di questa nuova corrente, oltre che ad occuparsi in maniera consistente di contenuti legati alla calligrafia, al type design, alla fotografia e quant’altro avesse a che fare con l’evoluzione della ricerca dei writer.

Su Garage ho avuto il piacere di poter lavorare ad alcune interviste a personaggi che ancora oggi reputo tra i più interessanti del panorama writing/post writing come quella a Blu e Lorenzo Fonda, Foe PME-SDK, Sauli Sirvio e Richard Schwarz e penso sia stata una grande scuola per capire l’importanza di approfondire questo mondo.

Era una rivista parecchio avanti rispetto ai tempi, grazie soprattutto all’intuito e al lavoro pazzesco dell’editore, Stefano Viola (Grog / graffitishop.it / Spectrum).

 

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Oggi, molte città italiane, fanno a gara ad aggiudicarsi gli artisti più grandi e a creare il festival migliore. Quali le differenze con ICONE, che per certi versi ha anticipato i tempi?

Icone è nata come “jam di graffiti del 2000” in un momento storico in cui ancora non era facile trovare muri dove poter dipingere senza il pericolo di essere denunciati, e si differenziava da altre esperienze per l’apertura esplicita verso chi, pur con un forte background come writer, non si esprimeva strettamente attraverso il lettering, per l’abbandono dell’estetica hip hop e l’organizzazione di esposizioni in luoghi “istituzionali”. Era il 2002 e ancora tutto questo mi pareva un modo per dare una mano a chi nel quotidiano rischiava in proprio per potersi esprimere liberamente e non aveva altre opzioni.

Col passare degli anni, mi sono reso conto che Icone si stava trasformando in qualcos’altro, complice soprattutto la grande ondata di interesse per i muri dipinti, che ha fatto si che gli artisti più capaci diventassero estremamente richiesti in tutto il mondo, trasformandoli per forza di cose in professionisti.

L’entusiasmo per il “nuovo muralismo”, ha generato insomma infinite possibilità per chi desidera dipingere per strada senza correre rischi e magari guadagnare qualche soldo, quindi di Icone non c’è più bisogno.

 

Attraverso diverse e numerose esperienze, hai avuto la possibilità di lavorare con diversi artisti, alcuni vedendoli quasi “crescere”. Qual è stata per te l’esperienza più interessante?

Non saprei sinceramente… di certo sono molto felice di aver iniziato a organizzare Icone e le prime mostre con Olivier Stak ed Honet che già 13 anni fa avevano una consapevolezza ed una maturità incredibile. Tuttora li ritengo due dei più importanti ed influenti attori del panorama contemporaneo.

 

Si è da poco conclusa la mostra THE BRIDGES OF GRAFFITI [ndr: dicembre 2015], evento collaterale alla 56esima Biennale di Venezia, che ti ha visto in un qualche modo partecipe. Vuoi parlarci un po’ di questa esperienza?

TBOG è stata una mostra molto importante sotto diversi aspetti: la città che l’ha ospitata, l’inserimento nel programma della biennale, la line up degli artisti che non ha dato spazio ad alcun compromesso mainstream e diversi altri particolari hanno contribuito a farne un evento assolutamente unico.

Ho avuto l’onore di avere la fiducia di Giorgio De Mitri, curatore della mostra insieme a Mode 2, che mi ha chiesto di proporre delle iniziative da realizzare durante i sei mesi di apertura della mostra. Questo mi ha dato l’opportunità di organizzare un ciclo di conferenze sul writing e di invitare alcuni delle figure più preparate in materia, cercando di ospitare accademici puri, artisti, editori e figure più trasversali, per presentare, con questi momenti di approfondimento, il massimo dei punti di vista possibili. Il risultato più importante di questa esperienza penso sia stato fare incontrare i relatori in modo che potessero conoscersi e creare “ponti” che sono certo porteranno a nuove ed interessanti collaborazioni.

Oltre a questo, ho dato un piccolo contributo al bookshow curato da Christian Omodeo, altra parentesi fondamentale all’interno della mostra, prestando qualche libro della mia collezione.

 

Se qualcuno volesse iniziare un approfondimento sulla storia e l’attualità del writing, quali sarebbero i tuoi consigli e chi o cosa merita, oggi, una particolare attenzione?

Credo che ci siano alcuni “testi sacri” imprescindibili per chiunque voglia prendere in mano uno spray in prima persona o anche solo farsi una idea di che cosa sia il writing: “Subway art” è tra tutti, il fondamentale. Per avere un’idea più chiara delle origini del movimento, si può poi passare attraverso “Graffiti a New York”, Writing: style from the underground”, “The faith of graffiti”. Arrivando al periodo di passaggio del writing dagli Stati Uniti all’Europa, “All city writers” è il vangelo, un lavoro monumentale e preziosissimo di ricerca; ce ne sono poi altri migliaia oggi, e dipende da quale aspetto del writing si preferisce approfondire.

Quelli che mi sentirei di consigliare, sono i libri e le riviste con interviste, approfondimenti o reportage su progetti complessi legati all’arte urbana non commissionata come UP e Klick Klack magazine, i volumi editi da Dokument Press o Publikat.

Altri libri che ho trovato estremamente interessanti, sono “Chiaro/scuro”, sulla storia del francese Cokney, e Devoration, su Fuzi: entrambi i libri presentano punti di vista molto radicali sul writing come stile di vita e strumento per fare “politica”.

Esistono infine moltissime monografie su città, sistemi ferroviari e singoli writer da rendere impossibile seguire tutto senza diventare pazzi.

Per quanto riguarda le mostre, i curatori e gli artisti che espongono in spazi istituzionali che personalmente seguo con maggior interesse, e in nessun ordine particolare, posso dire Taps & Moses, PAL crew, Robert Karltenhaeuser, Jens Besser, Utah & Ether, KCBR, Berlin Kids, Hugo Vitrani, Eric Surmont, Adams e, per l’Italia, il collettivo FX.