Un viaggio teatrale nella scena contemporanea. Vie si è chiuso da qualche giorno confermandosi come un festival da cui non si esce mai delusi, per la novità delle produzioni proposte e per lo spirito internazionale che lo contraddistingue.

Giunto ormai alla sua quattordicesima edizione, Vie Festival ha conquistato negli anni palchi sempre nuovi, nella provincia di Modena ma anche di Bologna e, da quest’anno, di Cesena.

Nonostante il Festival sia cresciuto e abbia giustamente dato spazio a nuovi teatri, nella mia immaginazione è legato principalmente al Teatro delle Passioni. La sensazione che mi dà questo spazio è quella di poterti ancora trovare faccia a faccia con gli attori nella caffetteria e scambiare due chiacchiere con i protagonisti del festival, magari sorseggiando un calice di vino e comunicando in un’altra lingua. La caffetteria del Teatro negli anni è diventata parte integrante della scena, ed è lì infatti che ha avuto inizio lo spettacolo Casa Calabaza, andato in scena per la prima volta in Italia il 6 e 7 marzo scorsi. Nella caffetteria gli spettatori si sono trovati di fronte alla video intervista di María Elena Moreno Márquez, che ha scritto i testi dello spettacolo. Troveremo piccole schegge di questa conversazione anche in uno schermo all’interno del teatro.

Casa Calabaza, del Colectivo Escénico el Arce è lo spettacolo vincitore del Concorso nazionale di Teatro Carcerario in Messico. Avete capito bene: la drammaturga è una detenuta, María Elena Moreno Márquez (Maye) e il testo è nato dal Programma Nazionale di Teatro Carcere Messicano, ideato e realizzato come terapia per le carcerate. Per la prima volta lo spettacolo è uscito dalle mura del centro detentivo per essere messo in scena da attori professionisti in Messico e nel resto del mondo.

Dimenticate Orange is the new black: in questo spettacolo non si parla di carcere. Casa Calabaza è un’opera autobiografica e narra la vita di Maria Elena Moreno Marquez, conosciuta come Maye, una donna che sta scontando una pena di 28 anni per matricidio in un penitenziario di Città del Messico.

Casa Calabaza non si sofferma sul fatto di cronaca in sé, bensì si addentra sul contesto familiare che ha portato al tragico epilogo. Non si entra nel merito di valutare e giudicare chi è vittima e chi è carnefice: lo spettatore è chiamato a entrare nella vita di una famiglia ed è immerso nell’angoscia di una situazione di costante frattura emotiva tra i personaggi. Ne deriva un indagine sui rapporti familiari e sul ruolo determinante che hanno sulle nostre vite e sulle nostre scelte, fin dall’infanzia.

Siamo, insieme agli altri spettatori, nella sala da pranzo della casa di famiglia: i personaggi ruotano attorno alla tavola della casa in cui Maye ha abitato con i genitori dai suoi primi anni di vita, passando per l’adolescenza e la giovinezza.  Le scene, in cui gli attori dialogano rivolgendosi al pubblico, ma senza voler veramente parlare con qualcuno, se non per dare man forte alle loro opinioni, regalano il ritratto di una realtà fatta di regole in cui le liti furiose dei genitori, il continuo rifiuto della madre nell’accettare la figlia e le regole imposte a Maye creano una condizione di fragilità, insicurezza e solitudine. Lo spettatore è immerso in una situazione di cui è costretto a essere partecipe e che cresce nella sua drammaticità fino a un epilogo tragico e opprimente.

Quattro attrici, in continua rivalità sulla scena, ci restituiscono Maye in anni diversi della sua vita e si scontrano verbalmente e anche fisicamente (esemplare la scena dei pasti, in cui ai dialoghi assordanti degli attori in scena si sommano il rumore dei piatti e delle posate sbattuti): il risultato è che lo spettatore vive e percepisce l’angoscia di una famiglia e di una casa che si fa sempre più grigia e umida con il passare degli anni e quanto tesi diventano i rapporti tra i componenti del nucleo familiare. La tensione infine si converte in risentimento, fratturando i legami ed entrando in un baratro che nessuno sa evitare.

Isael Almanza, che ha firmato la regia dello spettacolo, mi spiega com’è sorto il progetto Casa Calabaza.

Com’è nata la scelta di portare in scena uno spettacolo nato in un contesto di reclusione?

In Messico esiste un programma Nazionale di Teatro Penitenziario da più di 30 anni ma immediatamente e con grande rapidità è stato abbandonato (all’inizio si rappresentavano solo un paio di opere) ed è stato ritenuto (senza che venisse detto) un genere minore, ovvero veniva utilizzato solo per garantire la socialità e il recupero dei carcerati, dando loro premi in denaro (anche se bassi) e in alcuni casi trasformandolo in uno sconto di pena. Strutturato in questo modo il programma si convertì in un mero tramite e la sua ripercussione sociale fu di poca importanza, tanto che le opere uscivano senza una degna cassa di risonanza o erano considerate una semplice analisi antropologica. Tutta la loro preparazione è stata mantenuta all’interno dei penitenziari e – anche se importante- era poco riconosciuta dall’ambiente artistico messicano.
Questa informazione mi è stata data da Denise Anzures che attualmente produce e gestisce il progetto. Nel 2014 Denise mi ha invitato a far parte della giuria del Concorso nazionale di Teatro Carcerario in Messico e in conclusione mi ha lanciato una sfida, ovvero mi ha interrogato sulla mia capacità di poter creare un progetto scenico con le opere finaliste e in maniera particolare con l’opera di Maye Moreno, la vincitrice del concorso.
L’opera conteneva elementi di un emotività e di un’onestà sconvolgenti, tanto che lavorare su questo testo ci ha arricchito molto a livello umano. Da questo momento in poi con risorse personali io e Denise ci siamo completamente lanciati nella produzione con intenzioni chiare, avendo ben presente che la drammaturgia penitenziaria è un mondo artistico importante e che queste opere “di periferia” gridavano per essere ascoltate e rese degne in tutte le sue parti.

 

Fuori dallo spettacolo abbiamo visto attaccate alle pareti altri scritti di donne carcerate. Come funziona il programma del teatro penitenziario in Messico? Pensi che sia utile alle carcerate?

In qualche modo quello che c’era (ndr: i testi scritti dai carcerati e dalle carcerate dei penitenziari) è un atto di ribellione al programma: con questo voglio dire che tutti gli autori che hanno scritto quei testi (nella maggior parte dei casi a mano) vanno in scena proprio come lo facciamo noi. Pensiamo che siano molti gli autori e le autrici che realizzano opere teatrali all’interno del carcere e che vogliono essere ascoltati, che vogliano essere più che un semplice dato statistico.
Il programma ha l’obiettivo di realizzare una reintegrazione sociale a partire da un’attività artistica. Questo è il suo scopo principale, ma credo che in realtà le sue basi dovrebbero essere quelle di dare dignità alle vite dei carcerati a partire dalla scrittura e, in particolar modo, dal teatro.
L’artista è una persona ai margini della società ed è difficile che possiamo dirgli che vivrà di questo, (..), facendo un uso concreto di quanto appreso guadagnando denaro e creando un sostegno per il momento in cui uscirà. Questo è il motivo per cui è molto più complesso e profondo elaborare un discorso onesto con i carcerati e le carcerate. Ed è una sfida far intendere alle autorità che il teatro non è solo un progetto di occupazione ma che ha anche un bisogno sociale.
Circa cinque anni fa in Messico il teatro penitenziario ha cominciato ad avere molta più risonanza, anche se sempre con un animo di ribellione. Gli artisti messicani che avevano realizzato dei servizi di pubblica utilità in carcere cercavano metodi per far sì che i processi uscissero dalle mura carcerarie e venissero presi in considerazione dalla società civile. Ogni artista lo ha fatto con un punto di vista diverso, ma in maniera spontanea. E oggi possiamo dire che è aumentato l’interesse per quello che si produce nei penitenziari e gli artisti stanno lasciando da parte il loro ego per collaborare in maniera autentica con i carcerati e le carcerate. Quindi speriamo che giorno per giorno si creino nuovi “atti di ribellione”.

 

Quali ripercussioni ha avuto la realizzazione di quest’opera teatrale sulla vita di Maye?

La vita di Maye è cambiata nel quotidiano: le persone nel penitenziario la trattano e pensano a lei in maniera diversa, la rispettano. Le guardie la trattano in maniera rispettosa così come le autorità del carcere di Santa Marta Acatitla. Il fatto che l’opera teatrale abbia avuto successo ha fatto loro capire che è un essere sensibile e che ha una poetica personale, soprattutto perché Maye si è formata come drammaturga tramite le esercitazioni e gli studi fatti in carcere.

Per altri versi speriamo che questo serva per la sua liberazione e che tutti gli spettacoli realizzati, i luoghi in cui viene messo in scena lo spettacolo, gli articoli e i commenti generati servano come testimonianza per elaborare una nuova sentenza, anche se si tratta di un strada difficile, ma non impraticabile.  

 

Il testo di Maye è stato riadattato? Come siete dovuti intervenire sulla drammaturgia?

Il testo di Maye è stato semplicemente riorganizzato, ovvero ho deciso di prescindere da alcuni passaggi aneddotici per favorire la costruzione scenica e incentrarlo su quello che lei stessa mi ha confidato essere la vita dentro la casa. Per questo motivo ho deciso di incentrare tutte le scene nella sala da pranzo, dove si raduna e si unisce la famiglia, così come la necessità di vedere rappresentati i diversi periodi temporali di una stessa persona e come dialogano tra loro. Abbiamo tirato fuori l’essenza lasciando il testo più puro, dato che il linguaggio poetico di Maye è di per sé bello, quanto straziante e terribile.

 

Qual è stata la risposta del pubblico in Messico, dato che per la prima volta è stata rappresentata un’opera nata da una donna rinchiusa in un penitenziario, per una pena così dura?

Lo spettacolo in Messico ha avuto un grande seguito dal suo debutto ed ha avuto una risonanza pubblica, poiché si distacca dai canoni tradizionali del teatro. È uno spettacolo in cui la gente entra a scrutare un’assassina ed esce osservando un essere umano. Le persone provano empatia con la storia e con il modo in cui viene narrata, poiché viene confrontata con la realtà quotidiana di questo paese.
In Messico è un’opera che attrae e commuove, ma soprattutto che restituisce dignità a tutti quelli che fanno parte del progetto. Le persone che osservano la scena non possono rimanere indifferenti davanti a quello che vedono.

 

Casa Calabaza parla di donne così come fa Roma di Alfonso Cuarón: famiglie spezzate sostenute e nutrite dalle figure femminili, perché quelle maschili sono inesistenti o evanescenti. Cosa rispecchia la situazione attuale della donna in Messico?

La donna in Messico è una figura indispensabile, è il pilastro della famiglia. È la persona deputata concretamente al mantenimento dei figli.
Potrei dirti, inoltre, che la madre è colei che ha sulle spalle tutto il dolore e la sofferenza. È uno specchio durissimo della società messicana il fatto che il lavoro femminile sia stato storicamente poco riconosciuto e sottostimato, tuttavia oggi quello che è stato per molto tempo tenuto sotto silenzio viene ora gridato perché se ne avverte la necessità. È una gran lotta che deve essere sostenuta da tutti in ogni momento, senza mai pensare che sia finita.
Infine si può dire che il Messico sta vivendo un’ondata incontrollabile di femminicidi che vorremmo fermare. Vorremmo che le donne possano camminare senza avere paura di essere uccise durante il giorno, vogliamo che ritornino a casa sane e salve.