Il caso non esiste. Abraham Sidney lo ha ripetuto più volte durante la nostra conversazione, quasi come un mantra universale la cui legge dell’uno sia intrinseca all’esistenza stessa. Tutto è collegato, così come lo è l’arte alla vita e quella di Abraham, in particolare, alla sua e alle proprie origini.

Lo studio è un tripudio di colori e pennelli.

Abraham Sidney studio arte davide mari mocu modena cultura
Foto di Davide Mari

Racconta della tua storia: com’è nata la tua arte e quanto c’è al suo interno del tuo background culturale? Quanto hanno influenzato la tua produzione artistica le tue origini e le relative tradizioni?

Ho sempre dipinto.

Mio padre è nato in Ghana, mia madre a Lecce. Io a Modena. Le mie origini hanno profondamente influenzato il mio lavoro.

La presenza delle palme nei miei quadri è ricorrente, così come la particolare tonalità dei colori. Questa stoffa proviene appunto dal Ghana: è molto colorata e a ogni generazione si aggiunge un dettaglio di fantasia. Negli anni la texture si infittisce e questa somiglianza tra patterns tribali è ravvisabile nei miei lavori che indiscutibilmente rispecchiano questa contaminazione culturale.

Quando ancora era incinta di me, mia madre dipinse un quadro con delle palme che io vidi solo all’età di tredici anni. Già prima, però, io avevo fatto dei quadretti riportanti una composizione pressoché identica a quella. Deve esserci un certo legame a livello genetico. Una contaminazione non solo culturale quindi, ma anche genetica.

Altra analogia sono i forti contrasti cromatici, tipici della cultura africana di cui apprezzo la ripetizione dei micro-dettagli che vivo come una sorta di ritualità. Fin da piccolo ho avuto i colori a olio a portata di mano e da lì ho iniziato, prima ricopiando e poi producendo di mio.

Nel mio percorso artistico mi sono reso conto solo a un certo punto che nei miei lavori si ripropone, in maniera ridondante, la figura di un trapezio ed è, oltretutto, anche il logo della mia nuova galleria.

 

Quali sono i tuoi riferimenti artistici e da dove trai ispirazione per le tue composizioni?

Ho lavorato tanto per trovare la giusta tipologia di composizione, quella che fosse mia. Non l’ho scelta ma è venuta fuori da sé, affinandosi nel tempo.

Mi ispiro agli artisti del sublime come Bocklin in cui la maestosità della natura e la piccolezza dell’uomo rispetto a essa la fanno da padrone. Ammiro anche gli impressionisti e i post-impressionisti.

L’astrattismo mi piace finché si sta astraendo qualcosa, mi spiego meglio: quando mi descrivono come un astrattista non mi trovo d’accordo perché la mia astrazione parte dalla realtà, semplificando ciò che è descrittivo fino a farlo divenire solamente colore. Mi dispiace quando lo sguardo, veloce, pone attenzione soltanto al risultato finale senza fare lo stesso con i dettagli che lo hanno composto. Se gli si dedica un attimo di tempo in più, è facile accorgersene.

È quello che voglio lo spettatore faccia, sta poi a lui stesso dare la propria interpretazione rispetto a ciò che sta osservando; io propongo la mia ma lascio libera quella altrui che non voglio assolutamente forzare. Attraverso la mia prospettiva, chi guarda deve essere in grado di elaborare la propria.

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Foto di Davide Mari

 

Dipingi da sempre. Qual è stata la tua formazione accademica?

Inizialmente ho frequentato per cinque anni l’Istituto Tecnico per Geometri, poi mi sono iscritto al corso sperimentale di Design del Prodotto all’Istituto d’Arte Venturi. In seguito sono stato al Politecnico di Milano da cui mi sono allontanato per via dell’ambiente fortemente competitivo per andare all’Accademia delle Belle Arti di Firenze. Infine mi sono trasferito a Brera dopo aver partecipato a un concorso grazie al quale il mio gallerista mi ha fatto esporre, collaborazione continuata da allora fino a oggi.

Sono stato in Inghilterra per cercarne altre ma nel frattempo ho lavorato come chef: adoro la cucina nella quale posso esprimermi perché anch’essa è un’arte.

Con lo scoppio della pandemia da Covid-19 sono tornato a Modena, concentrandomi nuovamente sulla pittura. Mi ci sono sempre dedicato tanto, qualsiasi lavoro abbia fatto anche se sempre inerente al mondo artistico, ho sempre cercato di non adattarmi tanto alla professione che intraprendevo quanto di declinarla alla mia personalità che ha sempre prevalso.

Sono sempre stato me stesso e non ho mai trovato grandi attriti in questo.

 

Questo periodo di chiusura e raccoglimento ha apportato beneficio o meno alla tua produzione artistica?

Per me, paradossalmente, è stato fantastico.

C’era un gran silenzio e l’intera città sembrava il mio studio. Quando passeggiavo, in quel silenzio, mi sembrava di farlo all’interno di una biblioteca personale. Non c’era nessuno e la staticità esterna per me è stata molto produttiva.

Ho partecipato alla mia prima mostra digitale, essendo la galleria chiusa. I dipinti fatti durante il lockdown sono “spalancati” invece che essere chiusi o contriti: ho sentito una libertà assurda che si è riprodotta nei miei lavori con grandi cieli e grandi spazi aperti.

La chiusura fisica ha avuto su di me l’effetto opposto, favorendo una grande apertura mentale che mi ha permesso di raggiungere ugualmente i posti in cui non potevo andare.

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Foto di Davide Mari

 

Quanta importanza dai al colore e al suo utilizzo?

I pittori Mark Rotko e Paul Klee hanno fatto del colore un pilastro fondamentale della pittura. Durante il mio percorso mi sono reso conto che più di metà del lavoro avviene sulla tavolozza: se si sceglie bene il colore, si può metterlo liberamente sulla tela e ottenere ciò che si desidera. Il colore è fondamentale per me, e do più importanza a questo che alla forma.

Nonostante abbia fatto grafica, a mio avviso una linea avviene sempre come confine tra due colori e poche volte è tracciata. Come la scuola bolognese dei Carracci non necessitava della linea e delle forme, io ugualmente delimito i confini che in questo modo possono mescolarsi, conferendo una maggiore libertà d’interpretazione che sarebbe limitata nel momento in cui costringessi il tutto nella linea, conferendole una stretta narrazione.

Bisogna usare il colore come linea, per uscire ed entrare nei confini a proprio piacimento.

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Foto di Davide Mari

 

Come scegli i soggetti dei tuoi dipinti?

La scelta nasce dai miei taccuini, avendo sempre dipinto. Lì, c’è la mia testa: pensieri, studi, ricordi…

Ovviamente guardare tanti quadri e visitare tante mostre è fondamentale per arricchire la propria libreria mentale negli anni, alla quale puoi attingere quando produci.

Qualche anno fa la tecnologia non era così avanzata da soddisfare la mia esigenza di odore della carta e di colori, ora, invece, la penna apposita da poter utilizzare con il programma è talmente sensibile che sono arrivato a usufruirne tantissimo.

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Foto di Davide Mari

 

Cos’è per te l’arte e cos’è per te, in particolare, la tua arte?

Ho trovato una risposta semplice alla prima domanda nella definizione di San Francesco che recita: “Chi lavora esclusivamente con le mani è operaio. Chi lavora con le mani e la testa è artigiano. Chi lavora con le mani, la testa e il cuore contemporaneamente è artista”.

Avvalendomi di questo, posso affermare che l’arte per me è qualsiasi cosa fatta con abbastanza passione da poter essere definita personale. Nel momento in cui non la stai facendo con passione, essa può essere confusa con il lavoro di chiunque altro.

La mia arte parla del rapporto dell’uomo con la natura e di quanto siamo insignificanti rispetto a essa quindi per me rappresenta il monito che ci ricorda la nostra posizione di inferiorità, affinché la natura sia rispettata come merita, relegando ognuno alla propria posizione e al proprio ruolo, definendolo.

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Foto di Davide Mari

 

Come rappresenteresti il tuo atelier? Immagina una parola o un oggetto, un luogo ecc…

Con un prisma.

 

C’è qualche episodio particolare legato al tuo atelier? Come vivi solitamente lo spazio in cui crei?

Tempo fa questo era un luogo d’incontro con gli amici, “addetto” allo svago. Lo collego al periodo dell’adolescenza mentre ora è esclusivamente dedicato alla produzione artistica.

Non c’è più spazio per altro e pian piano i colori e le tele hanno inglobato ogni cosa.

 

Chi entra nello studio? È uno spazio molto intimo o inviti spesso persone esterne?

Dipende. Ci sono momenti in cui diventa intimo, mentre lavoro ed è pieno di disordine creativo. In quei momenti è solo mio.

Per il resto un artista deve essere capace di non essere timido e mostrare la propria arte per far sì che la gente la veda.

 

C’è una relazione particolare tra lo spazio e, ad esempio, la luce che entra? Le persone che abitano vicino? Il verde che lo circonda?

Assolutamente sì. Proprio per questo è un prisma, perché riflette e contiene tutto ciò che lo circonda.

 

Quanta influenza ha il luogo sull’opera? Cambiando il luogo in cui produci noti differenze e influenze dirette sul lavoro?

Certo, c’è una netta differenza nel produrre in un posto piuttosto che in un altro e non è possibile riprodurre la stessa opera in due posti diversi.

L’artista è un filtro del reale e tutto il circostante è oggetto di questo. Il luogo, a cui l’artista è molto sensibile, condiziona interamente la produzione.

 

Pensi che il tuo studio sia una rappresentazione fedele della tua personalità?

Sì, altrimenti non sarei una persona sincera se lo spazio in cui vivo non mi rappresentasse.