Venerdì 15 maggio la città di Modena si è risvegliata con un museo nuovo, un po’ anomalo, e immerso nel verde del parco Pertini, meglio conosciuto come i Viali; nessuna guida, nessun biglietto di ingresso, punto informazioni o bookshop. Un allestimento semplice e di impatto arrivato improvvisamente ad interrompere il ritmo delle corse mattutine, delle passeggiate con il cane o del giretto con i bimbi. Uno scotch rosso posizionato a terra a delineare uno spazio sicuro ma anche un luogo privato immaginario di fruizione dell’opera, creando quell’ambiente contemplativo che è andato sempre più perdendosi man mano che l’arte è stata resa prodotto di consumo. Attaccate sugli spazi pubblicitari, rimasti bianchi e vuoti, alcune opere dei nostri musei locali che non hanno senso di esistere se non in conversazione con le persone. Accanto ad ogni opera la didascalia e un manifesto dal titolo Modena: Museo d’emergenza.

Un museo diffuso d’emergenza a cielo aperto, per evitare che terrore e paura ci facciano ripiegare su noi stessi e la reclusione diventi anche deprivazione della bellezza che ancora esiste, seppur temporaneamente rinchiusa.

[…] uno spazio fatto anche per ritrovare quel contatto con l’arte più puro e sincero, che segue ritmi fisiologici ed emotivi lenti e personali, che spesso la nostra società non ci permette più di avere.

Modena museo emergenza - fotografia di stefano soranna mocu cultura
Modena: museo d’emergenza. Fotografia di Stefano Soranna

Alle 10.00 iniziano a comparire sui social foto dei Viali che inquadrano quadrati rossi, spazi pubblicitari, opere della Galleria Estense. Alle foto seguono alcuni video. Alle 11.15 un articolo su ModenaToday. Ciò che si legge su questo intervento incuriosisce molto, trapela un grosso lavoro, riflessioni profonde, un pensiero argomentato e sviluppato. Ma già alle 12.00 rimangono solo i segni di scotch a terra e alcune stampe; molte sono state rimosse o portate a casa da qualcuno.

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Poi finalmente un manifesto, anonimo, che termina con la richiesta di caricare foto utilizzando l’hashtag #museodemergenza. In principio su Instagram nessuna traccia, solo tante domande e nessuno a cui farle. Poi improvvisamente appare il profilo museodemergenza: 0 follower, 0 post, 0 stories. Il popolamento è lento, ma decido di prendere contatto in Direct con l’intenzione di scriverne su MoCu. Il manifesto parla chiaro e l’azione altrettanto: attendo con ansia la notifica che dia seguito alla mia smania di conoscere e, il giorno seguente alle 16.20 finalmente arriva.

Gli scambi avvenuti nei giorni successivi potete leggerli qui di seguito nell’intervista al collettivo d’emergenza, che ringrazio per la disponibilità e il tempo che mi ha dedicato.

Quello che succederà da qui in avanti ancora non lo sappiamo, ma ci prepariamo.

 

Intervista al Collettivo d’emergenza

Le opere che avete portato in strada sono tutte presenti all’interno di Musei del nostro territorio. In che modo è avvenuta la scelta?

La scelta di far uscire dalla quarantena forzata le opere della Galleria Estense nasce come reazione al lockdown dei Musei; la radicale digitalizzazione dell’arte ci ha fatto maturare la considerazione che un post non è in grado di sviluppare sia visivamente che a livello semantico un discorso su un’opera, qualunque essa sia.

Il Collettivo d’Emergenza non ha mai avuto la pretesa di contravvenire i luoghi originali a cui appartengono le copie fisiche dei file che abbiamo stampato, bensì comprendiamo ed esaltiamo il ruolo che appartiene a un’opera d’arte: modificare lo spazio nel quale risiede e, allo stesso tempo, modificare chiunque vi entri in relazione. Dovevamo scegliere opere che giocassero con gli spettatori e le loro domande, chiedersi perché il primo è l’Ecce Homo e l’ultimo San Rocco, perché così tante eroine protagoniste di questi squarci dentro il tessuto urbano della città.

Crediamo nell’importanza del termine “condividere“, non come verbo inventato per un alter ego digitale, ma energia in movimento in spazi tangibili.

Un giga può consumarsi; noi e i nostri spazi, no.

In un certo senso avete anticipato la riapertura dei musei, portando le opere in strada anziché le persone negli spazi. Forse per primi avete riportato fuori dal virtuale la conversazione tra opera e persona. Nel periodo di lockdown molte istituzioni museali (e non) si sono date da fare per comunicare in maniera alternativa e altre hanno messo le mani avanti pensando alla fase di riapertura, che comunque si presenta molto complessa da gestire.

Avete pensato di proporre il vostro intervento ai musei di Modena come scelta strategica in questa fase di lenta riapertura?

I Viali rappresentano una lingua verde a forma di V e lambiscono il centro storico di Modena, consentendo ai cittadini il transito in un’area protetta dal flusso delle macchine. In quel punto della città il ritmo rallenta drasticamente: c’è chi passeggia, chi corre, chi si siede su una panchina e sosta. Ognuno prende e trasforma lo spazio che lo circonda. Eppure sembra che nessuno se ne accorga. Ogni opera (pubblica) affissa, insiste su uno spazio che si riflette d’innanzi, generando un cono d’ombra nel quale poter sostare in relazione allo spazio stesso dell’opera. È un luogo che offre una doppia esposizione: se sul lato stradale il cartellone pubblicitario assume un ruolo pecuniario, sul lato parco esso offre una possibilità espositiva artistica, offerta alla comunità in quanto di proprietà collettiva.

Inoltre, lungo i Viali correva la cinta muraria della città di Modena e, quale miglior luogo per esporre arte, se non quello in cui un muro crolla aprendo le porte al resto della città? In uno spazio condiviso come questo, che non è solo nostro, ci piacerebbe pensare a collaborazioni con realtà cittadine legate al mondo dell’arte come Fondazione Modena Arti Visive, Gallerie Estensi e altre gallerie del centro, per lasciare, alla fine del nostro intervento, un luogo deputato alla crescita ed espressione di giovani artisti. Se l’arte contemporanea ci aveva fatto raggiungere le vette più alte della fantasia, Instagram e l’eccesso del visibile sembrano aver fatto invecchiare precocemente anche il mondo dell’arte contemporanea. Di conseguenza, abbiamo scelto di costituire la pagina Instagram del Museo d’Emergenza come ponte essenziale di connessione tra la sfera del reale e del digitale, mostrando i passaggi di stesura, costruzione e consolidamento del progetto.

Riempire i buchi tra qualcosa di detto e non detto è la sfida che ogni messaggio artistico lancia al proprio spettatore. Per questo, chi è lontano può solo limitarsi alle metafore digitali delle opere allestite; chi invece è a Modena, passeggiando fra i Viali, può vedere le prove di quei “reati dell’arte”.

Il pubblico può immergersi tra gli spazi urbani, notando squarci di un’arte che non è fine a sé stessa ma che, anzi, rappresenta una finestra di dialogo. 

Modena museo emergenza - fotografia di stefano soranna mocu cultura
Modena: museo d’emergenza. Fotografia di Stefano Soranna

Creando attesa nei giorni precedenti all’operazione, si sarebbe forse riusciti a generare maggiore attenzione da parte dei cittadini, dei media o delle istituzioni. Perché avete optato per un’ installazione notturna e senza “fase di lancio”?

Il lockdown ha davvero sorpreso il mondo intorno a noi, tutti si sono affrettati ad archiviare digitalmente i testi che rimanevano salvi dalle fiamme di una biblioteca che stava bruciando, ma non ci siamo chiesti come tradurre i tempi. Per certi aspetti, noi che siamo figli del millennio, avremmo potuto generare una spettacolarizzazione nel tentativo di lasciare tutti a bocca aperta; ma non era questo il nostro intento e non volevamo in nessun modo progettare a livello marketing un hype che sfruttasse con “strategia capitalistica” i corpi dei modenesi. Il motivo che ci ha spinto al “blitz“, così come molti lo hanno definito, non è stato un moto di violenza, ma un cortocircuito culturale in relazione alla materia: il cemento, il parco, lo spazio urbano, il suolo pubblico.

Spettacolarizzare il formato delle nostre stampe, riportandole a grandezze originali, sarebbe stato un errore, perché se noi criticavamo la visione che il lockdown ci dava, dovevamo mostrarla.

Dovevamo mostrare quanto stavamo diventando schiavi dello sguardo tramite i nostri devices. Anche i libri hanno la loro interfaccia, ma la loro dimensione fisica sfonda i limiti che uno schermo liquido non può; un tablet, uno smartphone o un computer portatile, riducono ad uno sguardo miniaturizzato quelle “opere-file” e il nostro intento era proprio portare quegli squarci miniaturizzati nel tessuto urbano.

Siete riusciti ad osservare le reazioni dei passanti, e soprattutto pensate di aver raggiunto il vostro obiettivo? 

Abbiamo avuto modo di osservare i comportamenti di chi perlustrava le opere.

Il nostro obiettivo è vedere le persone incuriosite, passeggiando per il parco, stando ferme o di corsa, consapevoli o ignare di essere spazio creativo nel parco creativo che attraversano.

Quel che è certo è che ogni fruitore diverrà opera nell’opera, parte integrante del processo evolutivo che il progetto intende avere.

Dobbiamo aspettarci altre installazioni di questo tipo o considerate conclusa la vostra operazione? 

Al momento siamo alla “fase 2”: lasciare vita alle opere.

Il deteriorarsi delle stampe sarà già di per sé una fase del processo di trasformazione: dal pensiero alla materia. Anche la vandalizzazione fa parte dei processi a cui saremo sottoposti; per esempio sul cartellone “Allegoria della pace che brucia gli strumenti della guerra” abbiamo affisso una nuova stampa a quella precedentemente strappata, perché consideriamo la memoria un elemento importante.

Adesso sono gli spettatori e i cittadini le opere che fanno parte dell’opera.

Noi restiamo osservatori silenziosi, fruitori delle opere in movimento. E ci prepariamo ad una nuova trasformazione!

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