Berlino ha la sua storia. E che storia. Indimenticabile. Forte. Pulsante. Viva, ancora, nonostante il tempo. Per Marco Magnone è stato amore a prima vista e, nel conoscerla, ha dato vita alla sua di storia per raccontarne tante altre di cui la capitale tedesca si assume i “diritti d’autore”. La narrazione è rivolta ai giovani che delle parole fanno gran tesoro, perché è nel racconto il verbo autentico della storia.

Marco è uno degli autori italiani per ragazzi più apprezzati, un piemontese molto legato a Modena.

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Quando hai capito che scrivere fosse la tua vocazione, dedicandoti in particolare alla narrativa per ragazzi? E come questo ha influenzato la tua vita da lì in poi?

Ho incominciato ad avvicinarmi alla scrittura in maniera completamente casuale.

Quando avevo all’incirca nove o dieci anni ho dichiarato ai miei genitori cosa avessi deciso di voler fare da grande. Ovviamente non era essere uno scrittore, ma neanche uno di quei mestieri che potessero aspettarsi. Dissi loro che volevo fare il cavaliere dello zodiaco e di tutta risposta mi dissero che non sarebbe stato possibile. Non volli rassegnarmi al mio sogno infranto, così cercai di trovare il modo di realizzarlo: scrivere una storia in cui il protagonista era, appunto, un cavaliere dello zodiaco che mi assomigliasse in tutto e per tutto. Così feci e scrissi una storia di mezza pagina.

Da lì, ho scoperto la forza delle storie: sono in grado di rendere reali e possibili cose che altrimenti non lo sarebbero. Da quel giorno non ho più smesso di scrivere: mi dava emozioni e soddisfazioni che difficilmente avrei potuto vivere altrimenti.

Un tempo prezioso che era semplicemente il mio spazio.

Arrivato all’università sono diventato consapevole che il mondo delle storie potesse essere di più, che potesse essere un lavoro. Ho frequentato la Scuola Holden di Torino e nel frattempo sono andato a Berlino in Erasmus. Non sapevo che sarei diventato un giorno uno scrittore ma avevo capito che mi piaceva avere a che fare col mondo dell’editoria e una volta tornato in Italia ho lavorato in una piccola casa editrice indipendente dove ho conosciuto Fabio Geda che in quegli anni, intorno al 2006, pubblicava proprio i suoi primi romanzi.

Il merito della scoperta, o meglio, della riscoperta del significato della scrittura per ragazzi va completamente a lui e al nostro incontro. Nel 2012 Fabio partorisce l’idea di scrivere una saga per ragazzi imperniata sull’archetipo di un mondo senza adulti all’interno di un’ambientazione urbana distopica, nello specifico quella di Berlino Ovest negli anni tra il 1961 e il 1989. Fabio non era mai stato a Berlino e qui sono entrati in gioco la mia esperienza e il mio contributo al fine di rendere l’ambientazione originale e veritiera, oltre che credibile. Quando si ha tra i dodici e i quattordici anni e leggi una storia in grado di catturarti è molto diverso dall’incontrarla più avanti: ti segna.

Qual è il valore delle storie per un adolescente? Qualcosa di gigantesco. Viene vissuto con entusiasmo e una capacità di crederci differente che con l’età tende a perdersi.

È stata un’enorme occasione per capire come quei conflitti che erano stati in grado di toccarmi da giovane potevano essere raccontati dal me adulto. Come dice Stephen King: “Quello che ci fa paura da ragazzi, ci farà paura per tutta la vita”.

Compresi quanto fosse prezioso scrivere per ragazzi. Per usare le storie non come risposte ma come punto di domanda per capire chi siamo e il mondo che ci circonda e realizzi, allora, che quello che stai scrivendo è davvero importante.

 

A tuo avviso, quindi, la differenza tra la narrativa per adulti e la narrativa per ragazzi risiede nel contributo formativo a livello di crescita personale che la prima può dare?

Quando si parla di letteratura, a mio parere, è meglio discernerla dal campo semantico formativo, didattico ed educativo. I giovani lettori, per via dei programmi scolastici, spesso finiscono per identificare la lettura con l’apprendimento e limitarla a questo.

Leggiamo perché ci incuriosisce, ci stuzzica, ci emoziona.

Noi adulti utilizziamo questo per scoprire l’ignoto e perché per i ragazzi non dovrebbe essere lo stesso? Per me, indipendentemente dall’età dei lettori, una storia è una storia. Le storie non devono mai dare risposte uguali per tutti ma porre il lettore davanti a delle domande.

 

Le storie servono appunto per porci delle domande, spesso scomode, che possono minare le nostre certezze e lo fanno tramite l’uso dell’empatia, che nel racconto si materializza nella capacità di mettersi nei panni dell’altro e comprenderlo. Da qui, il senso di comunità da cui l’uomo non può prescindere. Dove troviamo queste risposte e quanto è veramente importante trovarle o, piuttosto, lo è il processo per riuscirci?

Porsi la domanda è il passo fondamentale. Ognuno di noi ne ha una.

L’unico modo che abbiamo per allargare lo sguardo e vivere pezzi di vita che non sono la nostra è farlo attraverso le storie che ci danno la possibilità di guardare le cose da un punto di vista che non è il nostro per un certo lasso di tempo, relativizzando lo sguardo sul mondo, mettendo in dubbio alcune nostre certezze e convinzioni o confermarle, comprendendo che il nostro punto di vista non è l’unico.

Una storia è una buona storia a seconda della capacità di essere specchio di noi stessi. Il periodo adolescenziale è quello più importante perché lì le risposte cambiano ogni giorno e si è pieni di domande. Qui, si crea un’importante coordinazione e armonia tra la funzione della letteratura e le esigenze giovanili nella ricerca di chi siamo e di cosa diventeremo.

 

Della storia è più importante la sua essenza o il modo in cui viene raccontata?

Dipende molto dall’autore e dalla sua tipologia. La costruzione della trama di un libro non è la cosa più importante. Non deve essere costruito come un orologio svizzero il cui ritmo tiene il lettore incollato alla pagina.

Il punto cardine è l’immersione in quel punto di vista che diviene caratterizzante.
Dipende dal tipo di storia che stiamo maneggiando.

 

Insieme a Fabio Geda hai scritto la saga “Berlin”: un romanzo distopico post-apocalittico dove un virus ha sterminato gli adulti e i giovani divengono i protagonisti della storia. È ironico se si pensa alla situazione attuale dove i giovani sono, oltre che i protagonisti anche di questo periodo storico, anche i più colpiti a livello sociale, personale ed educativo. All’interno del romanzo muoiono tutti tra i sedici e i diciotto anni e questo breve periodo gli è utile per domandarsi “Io chi sono davvero?”. Oggi, secondo te, l’enorme disponibilità di tempo che ci è stata consegnata, è servita loro per capirlo? Il mondo letterario può dare loro una risposta?

La nostra storia si basa sul decorso di pandemie già avvenute in passato, così come quella da Covid-19 che ha solamente sottolineato l’incapacità del sistema internazionale di prevenirle.

Le storie si pongono come ancóra e via di fuga, caratteristica loro intrinseca per esorcizzare le nostre paure senza conseguenze. Questo accade in condizioni normali e ancora di più in momenti come questo dove la necessità e l’urgenza di tali scappatoie dalla realtà che ci circonda è ancora più pressante ed evidente.

Alle storie, però, non deve essere demandato un potere curativo perché già fanno tanto intrattenendoci, emozionandoci, facendoci divertire e riflettere. Per quanto possano allietare, non possono comunque sostituire la necessità di socialità tipica dell’adolescenza, il cui ruolo è determinante.

 

Il romanzo distopico è utile, con le sue sfide, per la crescita personale. A dispetto delle difficoltà che ci sono state proposte, pensi che queste abbiano incentivato tale processo nei giovani d’oggi?

È difficile dare una risposta uniforme. Quello che stiamo vivendo è qualcosa di talmente al di fuori di ciò che potevamo immaginare che ognuno di noi ha reagito in maniera differente, dal chiudersi in se stesso al tirare fuori il meglio di sé, magari riscattandosi.

Ogni ostacolo, ogni imprevisto, non è mai buono o cattivo ma è un banco di prova e ognuno lo supera alla propria maniera.

 

I giovani saranno gli adulti di domani. Qual è il tipo di mondo che stiamo lasciando alle nuove generazioni e che stiamo costruendo?

Un mondo sicuramente più difficile da leggere rispetto a quello che abbiamo ricevuto noi in eredità. In ogni salto da una generazione all’altra, quella che passa il testimone fa fatica a comprendere la successiva.

È difficile prevedere il mondo che verrà perché fa parte di un qualcosa che non ci appartiene ma l’importante è lasciare completa autonomia in modo che possa crearsi da sé nel modo più autentico possibile.

Il mondo che abiteremo domani è uno solo per tutti e ognuno è chiamato a fare il possibile per contribuirvi, senza discriminazioni d’età: non bisogna sottovalutare i giovani perché gli adulti stessi lo sono stati a loro volta e, così, i giovani di oggi saranno gli adulti di domani. C’è bisogno di ecologia sociale ovvero rispetto nei confronti degli altri e del loro vissuto.

 

La città di Berlino è spesso presente nei tuoi libri e tu in primis ci hai vissuto per diverso tempo: cosa ha apportato al tuo bagaglio culturale e letterario?

Senza Berlino, di fatto, non so ora cosa farei. Mi è rimasta dentro anche dopo esser tornato in Italia. Proprio grazie a Berlin ho continuato a scrivere per ragazzi, sia con Fabio Geda che da solo. Le devo tantissimo per quanto riguarda il mio essere diventato scrittore.

Quando ho visto Berlino per la prima volta nel 2003 erano passati poco più di dieci anni dalla caduta del muro ed era ancora qualcosa di assolutamente unico. Due città erano diventate una sola. Nel giro di pochissimo tempo c’è stata la comparsa di una moltitudine di spazi vuoti utilizzati dalla gente per fare qualsiasi tipo di attività. Da un giorno all’altro è diventata un enorme laboratorio artistico a cielo aperto, una calamita mondiale per tutti coloro che volessero provare qualcosa di diverso e diventare chiunque volessero essere.

A Berlino tutto era possibile. Una forza e una potenza rivoluzionaria incredibile che non aveva a che fare con il luogo in sé ma con la convinzione che tutto fosse possibile e più facile per chi l’abitava.

Con il tempo questa sua caratteristica è venuta meno per lasciare spazio a una sua versione più omologata alle altre capitali europee. Questo non cancella quello che Berlino è ed è sempre stata.

 

Qual è il tuo rapporto con la città di Modena e il suo ambiente culturale?

Molto bello. Da quando ho iniziato a pubblicare Berlin nel 2015, e di seguito per gli altri romanzi sempre per Mondadori, ho avuto la possibilità di incontrare la media di cinquecento o seicento ragazzi all’anno.

Vengo chiamato dalle scuole per discutere insieme delle emozioni suscitate dalla lettura dei miei libri. Modena, e anche Carpi, grazie ad alcuni insegnanti che mi hanno sempre accolto, è una delle tappe fisse dei giri di presentazione che faccio ogni volta con piacere. È un luogo dove torno sentendomi sempre a casa.

Cerco di immaginarmi l’incontro con l’autore come l’atto conclusivo di un percorso di educazione alla lettura che gli studenti e le studentesse vivono come qualcosa di prezioso e importante, restituendo quell’entusiasmo e quella passione di cui abbiamo parlato fin dall’inizio.

 

Tu insegni alla Scuola Holden di Torino: l’importanza della formazione nell’ambito della scrittura lo è tanto quanto il talento e la propensione?

La scrittura, di qualunque tipo, trovo sia un ottimo modo per togliere la letteratura e i libri dal piedistallo su cui vengono percepiti dai ragazzi: spesso, a causa dell’approccio disciplinare, la lettura è limitata ai classici che, per quanto siano importanti, non sono tutto il mondo della lettura. Gli autori vengono concepiti come depositari di un sapere inarrivabile e la scrittura quindi qualcosa di molto lontano da loro, ma non è così.

Anche i romanzi della letteratura non sono nient’altro che un modo di raccontare storie ed è un modo per far vedere loro come tali pagine siano un mezzo per dare forma al mondo. Scrivere una storia non è qualcosa di diverso dal costruire un tavolo: è sempre qualcosa di artigianale, per dare forma a qualcosa che non c’è, se non nella mente di chi la sta creando. Gli ingredienti cambiano ma il processo è lo stesso. È il frutto di un lavoro che portiamo avanti finché non siamo soddisfatti del risultato ottenuto.

Parlando di risultato è difficile parlare di talento. Dove sta il talento? Non c’è la laurea da scrittore. Esistono storie per ogni gusto che merita di essere rappresentato. Non credo esista una definizione di talento ma penso che ogni scrittore debba riuscire a raccontare la storia che vuole al meglio delle proprie possibilità. Se un talento c’è nella scrittura nasce dalla lettura: se si legge molto si ha una maggiore capacità di percezione nel rendersi conto se quella che si ha davanti è una buona storia. Quindi, il talento, se nella scrittura c’è, risiede nella capacità dell’autore di prendere il frutto del lavoro di una giornata o anche più, buttarlo via e ricominciare da capo.

 

Se ti dicessero che puoi leggere ancora soltanto un libro, quale sarebbe e perché? E quale quello che, invece, rileggeresti?

Rileggerei Ricordo di un’estate di Stephen King, il racconto da cui è stato tratto il film Stand by me. È la prima storia che ho letto e che mi ha fatto esplodere la passione per la lettura e che mi ha suscitato tutte le emozioni di cui abbiamo parlato. A me non piacciono le storie di paura e quella non lo è. È una storia di amicizia e della sua enorme potenza. La prima volta lo vidi sullo scaffale dei miei e ne fui subito attratto e chiesi loro se potessi leggerlo. Mi dissero di no perché non ero ancora abbastanza grande, non era ancora ora: quale motore maggiore per accendere la curiosità di un ragazzo?

Se avessi già incontrato un libro che avrei voluto leggere, lo avrei già letto. Sarei proprio curioso di leggere, invece, il prossimo libro che scriverò perché credo che un autore per essere onesto con se stesso e fare al meglio il proprio mestiere, scrivendo storie il più possibile in grado di toccare il lettore nel profondo, deve essere lui stesso il primo a rimanerne affascinato.

Ogni autore dovrebbe scrivere la storia che vorrebbe trovare sul proprio scaffale ma che non c’è. Tocca a lui scriverla.