In un’epoca sempre più digitalizzata, domandarsi se le fiere di settore di tipo tradizionale abbiano ancora un senso è probabilmente lecito. Se poi si parla di fiere editoriali, sulla questione si discute e ci si confronta ormai da qualche anno e senza che la risposta arrivi.

Chi lavora in ambito editoriale sa bene che dai primi anni duemila a oggi, la visione e l’importanza di un evento fieristico sono progressivamente, e magari anche profondamente, mutate in maniera indistinta, che si tratti di manifestazioni riservate agli addetti ai lavori, di tipo principalmente commerciale, o dedicate alla piccola editoria indipendente.

Le prime, come la Frankfurter Buchmesse e la London Book Fair, sono da moltissimo tempo due appuntamenti imprescindibili. Per anni, editori, agenti e autori di tutto il mondo, hanno preparato le agende e fissato gli incontri mesi prima, concentrando una parte significativa del loro lavoro proprio in quei giorni. Kermesse in cui anche il contorno è sempre stato importante, anzi, non di rado poteva succedere di concludere una trattativa durante una cena o ad una festa anziché al tavolo del rights centre.
Oggi? Forse continua a essere meglio non mancare anche solo per incontrarsi e coltivare le relazioni, ma, probabilmente, per scoprire un titolo da tradurre e pubblicare nel proprio paese o per avviare un progetto, da un po’ di tempo non c’è più bisogno di andare in riva al Meno a metà ottobre o fare un giro a Londra in primavera (due cose che peraltro restano piacevoli).

Nella seconda categoria ci sono le fiere come il Salone Internazionale del Libro di Torino, un evento decisamente consolidato tra i più importanti della scena culturale italiana e ancor più radicato nella città in cui è nato e che, solo un paio d’anni fa, lo ha fortemente protetto dalla “bulimia milanese”. Una manifestazione che nel suo genere è tra le più significative in tutta Europa e che ha saputo crescere costantemente, ma con il limite di non esser mai riuscito a far capire fino in fondo al pubblico che in quei cinque giorni sarebbe bene andare alla scoperta degli editori che faticano a entrare in libreria anziché affollare gli stand dei marchi dei grandi gruppi.

Infine la miriade di fiere della piccola o anche micro editoria che vengono organizzate con fortune alterne in tutta Italia. La volontà e la passione che sovente è alla base di queste iniziative meritano un enorme apprezzamento e meriterebbero altrettanto sostegno, ma salvo qualche eccezione, in gran parte non riescono a darsi un’identità e si perdono dopo poche edizioni.

Ma se, mettendo da parte quelle riservate agli addetti ai lavori come Francoforte e Londra, la fiera editoriale di tipo tradizionale non fosse superata ma avesse solo bisogno di cambiare approccio e visione?

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Unlock Book Fair 2020. Fotografia di Davide Mari

 

Se il futuro delle fiere editoriali fosse nel comfort del piccolo?
Essere estremamente di genere, con una forma che si prenda l’impegno di creare stimoli e senso di comunità.

Nel weekend del 24 e 25 ottobre a Modena è arrivata Unlock Book Fair (ve ne abbiamo parlato qui), un evento decisamente di genere e che, seppur di dimensioni contenute, porta comunque con sé un respiro internazionale.

Unlock ogni anno riunisce gli editori che si occupano di pubblicare libri e fanzine sul writing, l’arte urbana e le contro culture. La quinta edizione, dopo quelle che si sono svolte a Barcellona, Berlino, Amsterdam e Colonia, aveva da superare non solo le difficoltà abituali di un qualunque inizio, ma anche quelle del periodo decisamente poco tenero nei confronti degli eventi culturali e della partecipazione attiva delle persone, eppure l’impressione è che l’obiettivo sia stato raggiunto.

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Unlock Book Fair 2020. Fotografia di Davide Mari

Una trentina di espositori provenienti da tutta Italia ma anche da altri paesi europei, come Germania, Francia e Inghilterra, una serie di conferenze mirate e un gruppo di lavoro appena costituito sembrano essere le basi di un’intenzione: quella che Unlock a Modena non sia stata solo di passaggio ma che possa essere l’inizio di un percorso. Questo può essere reso possibile rinforzando la collaborazione con le realtà locali, sia associative che professionali, che insieme hanno costituito la squadra italiana; e, in particolare, con Urbaner – culture urbane Emilia-Romagna, il progetto nato qualche mese fa sotto la Ghirlandina dalla volontà del Comune di Modena di riconoscere e valorizzare le culture che si formano e si sviluppano in ambito urbano a livello regionale, in una prospettiva estetica, sociale e antropologica.

L’impressione deriva non solo dall’essere riusciti a realizzarla malgrado il momento difficile, ma soprattutto dall’atmosfera del weekend, chi l’ha visitata ha probabilmente avvertito quella sana informalità che è tipica di una prima edizione su cui è possibile costruire la seconda e qualcosa di successivo. Una piccola fiera editoriale che parla un linguaggio ben preciso, desiderosa di essere aperta a tutti ma con un pubblico di riferimento chiaro, competente e appassionato, su cui consolidarsi.

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Unlock Book Fair 2020. Fotografia di Davide Mari

Unlock è stata quindi un ulteriore segnale interessante per arrivare a quella risposta. Le fiere editoriali hanno ancora senso?

Quelle di genere, capaci di crescere in contenuti e qualità anziché in dimensione, quelle che si pensano sapendo a chi si rivolgono e provano a intercettare pubblico senza perdere la propria identità, probabilmente non solo hanno senso ma sono necessarie.