Il periodo che stiamo vivendo, oltre ad aver modificato radicalmente la nostra quotidianità, ci ha costretti a ragionare sulle conseguenze che nel breve e medio periodo si rifletteranno nei nostri comportamenti sociali. Ho avuto per questo il grande piacere di confrontarmi virtualmente con Vittorio Iervese, docente di “Sociologia dei processi culturali e comunicativi” presso l’Università di Modena e Reggio-Emilia, per porgli alcune domande. Vittorio Iervese è anche Presidente dell’istituto italiano Festival dei Popoli, impegnato dal 1959 nella promozione e nello studio del cinema di documentazione e nell’organizzazione del principale festival internazionale del film documentario, la cui 61esima edizione si terrà dal 15 al 22 novembre a Firenze.

La situazione attuale ci sta costringendo a relazionarci con noi stessi, prima che con gli altri, in modo differente?

Può darsi, ma anche no. Intendo dire che le modalità con cui stiamo affrontando questo periodo di quarantena non sono tutte uguali. C’è chi è costretto ad un isolamento, chi invece ad una convivenza forzata. Non sempre, quindi, la “relazione con sé stessi” è possibile o assume oggi un’intensità maggiore di quanto fosse possibile prima. Diciamo che c’è un’immagine edulcorata della quarantena molto vicina alla clausura riflessiva e meditativa di certe pratiche eremitiche. Invece, a me viene da pensare alle innumerevoli situazioni di coabitazione coatta, con persone care o ostili, con figli o anziani, persone malate o iperattive, sportivi frustrati o tediosi logorroici.

C’è una socialità obbligata, e a tratti claustrofobica, in questo periodo di quarantena che credo sia preponderante rispetto alla introspezione. Tutto ciò si riverbera e si riversa sulle piazze virtuali, divenute curiosamente il luogo in cui presentare sé stessi, i propri dubbi le proprie nevrosi. In generale, questo periodo è un eccezionale amplificatore delle situazioni pregresse che si radicalizzano e si manifestano nella loro problematicità. Certamente ci sono delle discontinuità, uno spaesamento e una necessità di adattamento che possono portare ad una riflessione sui propri limiti o sulle proprie emozioni. Ma l’esigenza di trovare nuove routine credo prevalga per necessità contingente ma anche perché è un potente fattore di rassicurazione. Guardarsi dentro può essere terribilmente angosciante.  

Quale sarà l’impatto, dal punto di vista sociologico, di questa esperienza senza precedenti? Su quali aspetti in particolare ci potranno essere ricadute?

Francamente è difficile dirlo o è difficile separare alcuni aspetti da altri. Per brevità, faccio notare due fattori che tutti abbiamo ben presenti: l’insicurezza economica e la tenuta di alcuni sistemi sociali. Il primo fattore riguarda tutti, ma ovviamente ci sono categorie più esposte e più fragili. A questo proposito è bene ricordare che, durante le crisi, i soldi non spariscono: si bloccano, si incagliano, smettono di girare. E si concentrano in poche mani, di solito nella rendita, anziché nell’economia reale, che si blocca. Questo significa anche che ci sarà una fase di riposizionamento dei rapporti di potere. L’effetto domino di questo tipo di cambiamenti è al momento difficile da prevedere, anche se la Storia qualche utile suggerimento può fornirlo. 

Per quanto riguarda invece la “tenuta” di alcuni sistemi sociali intendo dire che questa fase emergenziale pone dei problemi strutturali. La gestione dell’emergenza ci accompagnerà ancora per lungo tempo. Nel dibattito pubblico c’è già chi sta pensando alla concessione di forme di libertà differenziate in base alla valutazione del rischio (es. in base alle fasce di età) così come accade già da tempo in Paesi in zone di guerra che si protraggono per lunghi periodi. Alla tradizionale distinzione tra libertà e uguaglianza che ha contraddistinto tutto il Novecento stiamo rapidamente sostituendo quella tra libertà e sicurezza, una distinzione che sta orientando l’agire politico ma che vincolerà anche altri sistemi sociali. Addirittura, il contrario di libertà in questi giorni diventa “vita” e questo ci sembra così ingiusto, così estremo, così inedito. Abbiamo pensato alla “libertà” in termini di mera azione individuale, di autodeterminazione egoistica e di capacità di crearsi degli spazi di autonomia a scapito di altri. Da un lato della distinzione c’era la mia libertà, dall’altro lato nessuno. Ma senza coordinamento con gli altri la libertà è un luogo vuoto, un mero sinonimo per “imposizione di potere”. 

Questa è soltanto una delle tante “ricadute” possibili di questa crisi ma credo che ciascuno di noi, a partire dal proprio avamposto di osservazione, sia in grado di vedere alcune delle ricadute concrete che dovrà trovarsi ad affrontare. Per parlare di qualcosa che conosco da vicino, come docente universitario sono alle prese con un rapido ripensamento delle modalità di formazione, che non riguardano soltanto la mera questione tecnologica (quale piattaforma usare) ma pongono un problema più profondo sul senso e sulle modalità della condivisione della conoscenza e delle competenze, più che del trasferimento unidirezionale, in questa delicata fase storico-sociale. Al contrario di quello che si potrebbe chiedere, gli studenti, non soltanto universitari, con cui ho a che fare in questo periodo, pongono una grande domanda di partecipazione attiva, mettendo in discussione le basi dell’insegnamento e della formazione tradizionali. 

Quando si diffonde il panico, storicamente, si produce un desiderio di ordine e controllo. Un caso emblematico è quello del “Patriot Act” negli Stati Uniti, che ha decretato una forte limitazione delle libertà personali, giustificate e accettate dalla gran parte della popolazione perché considerate il prezzo della sicurezza. Questo scenario è ipotizzabile come conseguenza della quarantena?

In parte ho affrontato questo tema già nella risposta precedente, quindi ne approfitto per raccontarti un aneddoto personale.

L’Estate scorsa ho passato una settimana di vacanza al mare insieme ad alcuni amici e i rispettivi figli e figlie. Un gruppo nutrito e festoso di età diversa a cui piacciono le spiagge selvagge e non attrezzate. Un giorno arriviamo in una di queste nella zona di Baratti. La giornata è bella ma il mare è mosso, con onde di media altezza. Qualcuno tra di noi si rende conto che in mare c’è una persona che chiede aiuto, si sente appena ma si vede una figura sbracciarsi e dimenarsi. Ci sono persone a riva che guardano incredule, quasi divertite. E in quel momento succede l’inatteso. Il personale di salvataggio è lontano, qualcuno dei ragazzi è già in acqua, qualcun altro si rende conto che c’è una colonnina per il primo soccorso: un salvagente attaccato ad una lunga corda; corriamo a prenderlo. Chi si è tuffato si rende conto dei suoi limiti e viene riportato indietro dalle onde. Alcuni chiamano una delle ragazze del gruppo, la più esperta e abile a nuotare che raggiunge l’uomo in difficoltà, lei sa come fare: lo agguanta ma non riesce a tranquillizzarlo. Si crea una specie di catena umana a doppio scorrimento; il salvagente viene portato dalla riva al largo, l’uomo mezzo affogato viene trasportato verso terra, fino al punto in cui l’uomo non incontra il salvagente ed entrambi vengono trainati sul bagnasciuga. Attorno qualcuno osserva compiaciuto e si assicura che l’uomo mezzo affogato stia bene. Questi si alza un po’ stordito, guarda la moglie con sguardo imbarazzato e si defila biascicando qualche parola di circostanza. Noi siamo un po’ eccitati ma contenti. Tutto torna alla normalità tra giochi e l’indolenza da spiaggia. Tempo dopo mi trovo a raccontare il fatto ad un bagnino esperto a cui chiedo quale sarebbe stato il comportamento adatto. Lui mi dice che è meglio andare con un’imbarcazione o qualche strumento per il salvataggio, se non ce l’hai devi evitare di farti coinvolgere dal panico della persona in pericolo usando una determinata tecnica. E se tutto questo non basta, devi provare a stordirlo. 

In questi giorni, la condizione di molti uomini e donne è simile a quella del bagnante che si dimenava impaurito in mezzo alle onde. Dobbiamo decidere se vogliamo stordirli violentemente per portarli al sicuro o trovare il modo per fare ciascuno la nostra parte, coordinarci con chi ha competenze e sfruttare le possibilità esistenti. Il panico e l’emergenza impongono un regime d’eccezione in cui i normali comportamenti sono sospesi e la violenza o la limitazione dell’autodeterminazione diventano dei mezzi necessari. Ma questi mezzi modificano radicalmente le interazioni sociali, il nostro modo di stare nel mondo con gli altri, chiedono un prezzo altissimo che può arrivare a snaturare il senso stesso dell’azione di salvataggio. È un sottile limite che non vorrei avessimo già sorpassato.

Possono nascere delle opportunità da un contesto così drammatico?

Opportunità ci sono sempre, in ogni situazione, poi dipende chi può vederle e coglierle. Insomma, alcune opportunità sono vantaggi soltanto per alcuni. Se però ragioniamo sulle opportunità comuni e non discriminatorie mi viene da darti due esempi. Il primo riguarda quanto detto sopra, i vari sistemi sociali sono chiamati a reagire allo stress provocato da questa crisi sistemica e ciascuno lo farà a suo modo. Ovviamente le trasformazioni comportano fatica, disorientamento e diversi problemi collaterali ma sono anche un grande motore di innovazione e di cambiamento. Lo sforzo che stiamo compiendo oggi per adattarci a nuove forme di lavoro non ci permetterà di avere molti alibi domani per ritornare semplicemente alle vecchie abitudini.

Il secondo esempio è più generale e teorico. In questa nuova condizione possono nascere aggregazioni nuove, quelle che il sociologo tedesco Ulrich Beck chiamava: “comunità di rischio cosmopolite o comunità di destino”. L’azione creativa e la solidarietà nascono dalla coscienza collettiva di fronte ai rischi globali. La crisi e la consapevolezza dei rischi possono portare a un’azione congiunta di trasfigurazione dei mali in beni. Sempre Beck indicava con il termine “catastrofismo emancipativo” quel processo per cui una società diviene riflessiva come reazione al rischio in cui incorre e in cui le città globali diventano il luogo dove il rischio viene affrontato, la metamorfosi vissuta e il futuro ridisegnato. So bene che di fronte a queste parole ci sarà qualcuno che storcerà il naso, dubitando sulle facoltà migliorative della società. Io parlo di riflessività, che significa anche crescente complessità, e credo che sia un destino ineludibile. 

Vittorio Iervese. Fotografia di Ilaria Costanzo

Analizziamo le percezioni relative al pericolo immediato del Covid-19 e quelle relative ad un pericolo differito come il Global Warming, che fatica ad essere percepito come reale: usciti dall’emergenza ci sarà un cambiamento generale nella sensibilità sociale rispetto ai pericoli per la salute?

La storia che stiamo vivendo ci sta dimostrando quanto sia difficile che un allarme globale cambi i comportamenti locali e particolari. Questo è vero sia per un problema di scarto temporale tra l’azione e la conseguenza di quell’azione, sia di prossimità sociale. Difficile comprendere la propria responsabilità nel proteggere e preservare un bene comune, nel secondo caso c’è un problema inverso, capire che i problemi degli altri hanno in buona parte una ricaduta anche su di noi, a prescindere dalla distanza geografica o culturale. Se pensiamo a come ciascun Paese abbia osservato avanzare il Coronavirus negli altri Paesi credendosi immune e diverso, possiamo dedurre quanto sia difficile che si produca una consapevolezza comune sui rischi ambientali. Questa pandemia assomiglia molto ad uno tsunami che ognuno ha visto arrivare a distanza senza potersi capacitare che avrebbe potuto travolgerlo direttamente. Ciò che è lontano è visto quindi come uno spettacolo che si guarda ma non ci riguarda. Come se la lontananza geografica non fosse prossimità sociale!

D’altra parte, qualcosa è successo. Il fatto che un microscopico virus abbia attraversato confini, contagiato chiunque senza riguardo per le differenze sociali, messo in evidenza quanto le condizioni socio-ambientali siano fondamentali per prevenire e rispondere alla crisi, è l’affermazione di una iper-connessione del mondo. Questo aspetto era già chiaro da molto tempo, qualcuno in passato l’ha chiamata globalizzazione ma ci siamo presto resi conto che era un termine insoddisfacente, preso a prestito dall’Economia e che corrispondeva con un’idea programmatica. Recentemente, da ben altri ambiti, è entrato nel vocabolario un altro concetto non meno problematico ma sicuramente di grande fascino: Antropocene. Se lo si considera attentamente, questo concetto sovrasta persino quello di globalizzazione e allarga ancora di più l’effetto di iper-connessione del mondo. Sarebbe utile sfruttare questa congiuntura per rendere una volta per tutto evidente che ognuno è parte dell’ambiente per l’altro e viceversa. In questo senso, i problemi sociali ed ambientali dovranno essere considerati congiuntamente. Almeno per un sano e atavico istinto di sopravvivenza.

Festival dei Popoli. Fotografia di Alisa Martynova

Parlando del settore culturale, nel ruolo di presidente del Festival dei Popoli si sarà interrogato sul ruolo della cultura in questo periodo e sulle modalità di comunicazione con il pubblico. Quali sono le sue considerazioni?

Il mondo della cultura è stato più lesto di altri a reagire a questa crisi e alla restrizione di movimenti. I social network si sono riempiti di iniziative di condivisione di film, letture, musica e tutorial. Molti autori si sono resi disponibili a mettere a disposizione le loro opere gratuitamente, tanti musei hanno messo a disposizione le loro collezioni, alcune piattaforme hanno concesso un periodo di iscrizione gratuito, taluni festival si sono spostati online, permettendo paradossalmente a chi non aveva i mezzi per parteciparvi di avere una possibilità, seppur parziale, di fruire delle opere in programma. Questo fermento mette in luce diversi elementi di enorme interesse: in primo luogo che la cultura è una dimensione necessaria del vivere umano e che si comporta, utilizzando un termine dell’economia che sta tornando prepotentemente al centro dell’attenzione, come un bene rifugio, ovvero che ha un valore intrinseco, che tende a non perdersi o addirittura aumenta a seguito di turbolenze sui mercati. Poi ci dice che la storia da una parte e la capacità di selezione dall’altra sono elementi complementari ed indispensabili per chi fa cultura, ancora di più dell’erudizione. In questa fase, chi ha un archivio disponibile e ben attrezzato è in possesso di un piccolo tesoro. Al contempo, si ricercano soggetti che sappiano individuare ciò che è rilevante, separarlo dalla ridondanza di informazioni e valorizzare creativamente queste risorse. Le iniziative di condivisione e di scambio culturale stanno funzionando molto bene in questo periodo ma mostrano anche alcuni limiti. Il primo è che si tratta quasi sempre di azioni di distribuzione che presuppongono una fruizione isolata e spesso passiva. Il secondo è che si attenuano i momenti di confronto, di dialogo, di partecipazione attiva all’evento. Infine, si manifesta un problema di sostenibilità di queste azioni, sia dal punto di vista economico sia da quello della sua riproducibilità nel tempo. Insomma, perché la cultura si riproduca c’è bisogno che si attivino dei processi sociali e non soltanto una riproduzione dell’identico. Come Festival dei Popoli stiamo immaginando delle nuove sfide per mantenere, ed eventualmente allargare, la comunità degli appassionati e quella dei curiosi. Ad esempio, abbiamo proposto una collaborazione ad alcuni musicisti per sonorizzare alcune opere rare del nostro archivio e mettere a disposizione questo contenuto nuovo ed inedito in rete ma in una modalità che riproduca l’appuntamento live. Sono piccoli ma significativi tentativi di vita.

Il festival sarà a novembre, pensa che alcuni documentari che verranno proposti saranno pronti a descrivere questo momento per stimolare il dibattito?

Anche se tra mille difficoltà, il nostro lavoro di programmazione sta procedendo ininterrottamente. Gli obiettivi che ci eravamo posti diversi mesi addietro rimangono ma con un occhio puntato, inevitabilmente, all’attualità e alle prospettive future. Siamo al corrente di almeno 3 documentari in corso di realizzazione che si occupano del mondo ai tempi del Coronavirus ma sono convinto che ce ne saranno molti di più da qui a qualche mese. C’è chi sta lavorando in maniera partecipativa, quindi affidandosi a più autori e così ovviando al problema della limitata mobilità. Altri stanno utilizzando la rete come strumento di comunicazione ma anche come enorme produttore di immagini. Altri ancora stanno facendo un lavoro di campo, concentrandosi soprattutto sui focolai più importanti. Il problema sarà capire quali di questi lavori saranno in grado non soltanto di contenere informazioni ma anche di avere la sufficiente profondità per trasformare in cinema la nostra quotidianità. In altri termini, più che l’istant movie ci interessa la qualità del lavoro filmico. Di certo, avremo un grande bisogno di opere, non soltanto cinematografiche, che ci aiutino ad elaborare il trauma e a comprendere qualcosa di più sui cambiamenti che stanno avvenendo. Dall’interno dell’occhio del ciclone certe storie non si riescono a comprendere in modo definito.

Sarebbe auspicabile però che anche il mondo della cultura domani cambiasse alcune sue prassi, dalle modalità di finanziamento a quelle finalizzate alla competizione tra eventi, altrimenti non avremo fatto tesoro di questo turbolento e drammatico periodo. È in questa ottica che Il Festival dei Popoli sta avviando una serie di collaborazioni con realtà diverse e complementari alla nostra. Ad esempio, collaboreremo con il Festival DIG (Documentari, Inchieste, Giornalismo) che ad ottobre è in programma a Modena. Si tratta di un importante Festival che ospita il meglio del giornalismo d’inchiesta internazionale. Non c’è dubbio che ciò di cui stiamo parlando ora in questa intervista troverà spazio anche in quel Festival. Direi che possiamo darci appuntamento in quell’occasione per tornare a confrontarci su questi temi. Questa volta di persona.