Abruzzo forte e gentile. Abruzzo che non si arrende. Vero. Me lo confermano al telefono i tanti amici che abitano nelle zone più disparate dell’entroterra martoriato di questa regione, mentre io col cuore in gola li contatto per avere notizie. “Tranquillo, l’Abruzzese è forte e ha mille risorse: abbiamo preso dal Gran Sasso” dice Mariangela che, essendo in dolce attesa, ha affidato al marito il compito di sfidare la neve per avere notizie dei genitori, da più di un giorno senza copertura telefonica e senza elettricità.
Parliamo di Atri, uno dei centri principali della provincia di Teramo, 11.000 abitanti, distante non più di 12 km dalla costa libera dalla neve anche se inondata dalla forza di fiumi e torrenti in piena. Eppure già qui la neve ha superato i due metri di altezza e manca la corrente elettrica dal 16 gennaio, oltre 72 ore quando scrivo. Lo scenario è apocalittico e per la prima volta non mi sembra esagerazione giornalistica l’utilizzo di questi termini. Da Corropoli (TE) a Guardiagrele (CH) alla Valle Peligna (Sulmona), un’area di proporzioni senza precedenti è colpita da un’emergenza senza precedenti.

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Tiziana e Antonio, allevatori di pecore e mucche in una frazione di Atri, sono l’esempio di quello che sta soffrendo il paesaggio rurale, il settore primario che in questi territori è ancora la spina dorsale dell’economia. Mi è impossibile ottenere notizie. Difficile descrivere il senso di smarrimento che assale quando, in una società dalla telecomunicazione ipertrofica, il segnale del cellulare si fa assente. Il silenzio è profondo e il vuoto non può essere riempito che dall’ansia e dalla fibrillazione. Quando la figlia che vive a Roma mi dice: “La mamma piangeva, gli animali stanno morendo di sete, non sanno che fare…”, il mio cuore si fa piccolo piccolo. Sì, perché anche se la neve è ovunque, l’acqua corrente non è disponibile. Sembra un paradosso, come morire disidratati su una zattera in mezzo al mare.

Questi allevatori non fanno parte di grandi gruppi, sono famiglie con la loro piccola stalla, che fanno formaggio prima di tutto per passione, per l’amore verso questi animali, che io ho visto manifestarsi con i miei occhi e che contribuisce, ascoltando quelle parole, a fermarmi il respiro. “Papà è salito in paese col trattore per cercare di incrociare qualcuno, una camionetta dei militari, chiedere aiuto”.
Quando sento la prima scossa di terremoto guardo il cielo e, lo confesso, sorrido. Per un attimo sospetto di essermi trasformato in Wile E. Coyote, apro l’ombrellino in attesa che un meteorite mi piombi sulla testa. Perché davvero manca solo quello. Scosse, scosse, non finiscono mai. Il sorriso amaro svanisce rapidamente. Ho amici sparsi in questi piccoli Comuni montani, ma il flag di Whatsapp rimane singolo e grigio, messaggio inviato ma non ricevuto. È la simbologia dell’angoscia del XXI secolo. Riesco a sentire il Direttore della Riserva dei Calanchi di Atri: “Mancano i mezzi, dobbiamo aspettare…” L’impotenza è il sentimento più poderoso in questa tragedia. “Ci siamo detti ‘Dobbiamo fare qualcosa, organizziamo una squadra’. Tutti vogliono aiutare ma la verità è che senza i mezzi adeguati non ci si può spostare, si sarebbe solo d’intralcio”. Arriva un messaggio: “Siamo sepolti dalla neve, la casa trema ma non possiamo scappare. Siamo come topi in trappola!”. Cuore di nuovo fermo.

La neve che si scioglie, le scosse, provocano valanghe terribili. L’acqua che scorre impetuosa trasforma le strade in canali, i canali in torrenti, i torrenti in fiumi, le vallate in maree montanti di fango e detriti. Gli alberi crollati completano il quadro di desolazione. Lascio il mio vino in cantina, la carne del nostro maiale e delle nostre oche sepolta nella neve nella speranza che possa tenere il freddo, mi incammino verso la costa perché restare non ha più senso. Perché non so cosa fare. Perché sono impotente.
Sul treno per Modena penso a quando si potrà tornare a muoversi in macchina in quelle campagne, quando si riuscirà a mettere mano ai terreni, a sistemare gli olivi dai rami amputati, a travasare i vini da vendere in primavera. Arrivato a casa, acceso il televisore per la prima volta dall’inizio dell’emergenza, ecco qualcosa di cui non sentivo la mancanza: la retorica dello sciacallaggio politico. Dopo un’immersione di diversi giorni nella profondità del reale (la minaccia meteorologica, la mancanza degli elementi di prima necessità), dopo aver ripreso contatto con lo spessore delle risorse fisiche e mentali di cui l’uomo deve disporre per conservare la sua vita, sentir parlare i nostri rappresentanti a Roma mi è suonato come una nota più stonata del solito. Il Governo invece di fare quello doveva fare quell’altro, serviva questo, serviva quest’altro. A sentirli dai microfoni non si intuisce davvero come una classe politica così preparata, così ferrata su tutte le manovre da compiere per affrontare qualsiasi situazione e da anni ormai seduta in Parlamento – ora nella Maggioranza, ora nell’Opposizione –, non si comprende dicevo come questa classe politica di illuminati non sia riuscita a portare questo Paese ad essere un’oasi di perfezione amministrativa su scala mondiale. Qualcuno si è lanciato in grandi proclamazioni sui social: “Cancellati tutti i miei impegni, domani sarò in Abruzzo al fianco della popolazione!”. Molti Abruzzesi si sono subito cimentati nei più irriferibili gesti scaramantici, commentando che la Protezione Civile ha perentoriamente sconsigliato di mettersi in viaggio e che il numero di calamità aveva raggiunto già il massimo sopportabile. Ma quel qualcuno, tanto è noto il suo affetto per le regioni del Centro-Sud, ha rinunciato a recarsi al Parlamento Europeo (dove nelle stesse ore, ironia della sorte, si stava votando sullo sblocco dei finanziamenti per i terremotati) e ha sfidato il gelo pur di essere vicino ai cittadini in difficoltà.
Mi manca quel silenzio. Mi manca il silenzio siderale, per quanto assordante, della regione sommersa dalla furia degli elementi. Perché in quel silenzio si sente il confortante rumore delle turbine, degli spazzaneve, delle pale dei Vigili del Fuoco, della Protezione Civile, dei Carabinieri, della Polizia, dell’Esercito e di ogni cittadino abile al lavoro; confortante sì, pur nella tragedia, più confortante del chiacchiericcio viscido e putrescente del Gran Leader di turno. In Abruzzo ora servono mezzi da lavoro, generatori di corrente, viveri. Le chiacchiere stanno a zero. I politici, coloro a cui affidiamo la pianificazione socio-economica del nostro Stato ma anche, a livello locale, delle Regioni e delle Province, hanno il dovere di far lavorare lingua e meningi quando occorre dare sostegno economico agli allevatori, ai contadini, agli artigiani che con immani sacrifici mantengono in vita un territorio periferico, svantaggiato, montuoso, comunque fibra irrinunciabile del tessuto italiano. Quando occorre redarre i bandi che sblocchino le risorse europee destinate ai comparti più disagiati di queste economie rurali così delicate. Se questo signore è così preoccupato del destino di queste terre, perché non va d’estate, quando fa caldo e le strade sono belle pulite, da Antonio e Tiziana a chiedere loro di cosa avrebbero bisogno non per diventare ricchi, ma per migliorare il loro tenore di vita pur mantenendo il lavoro che amano, nella terra che amano? Perché non parla di piani infrastrutturali per portare turismo solidale anche nelle zone lontane dalla costa “riminizzata” dei grandi hotel? Questa e altre domande affollano la mia testa mentre spengo il televisore e mi reimmergo nel silenzio.

E cerco di raccogliere tutta la mia energia e il mio affetto e di spedirli telepaticamente agli amici lontani, che sono forti e gentili, che sempre hanno tirato la carretta senza i grandi politici, lontano dai riflettori, ed ancora una volta, senza di essi, la tireranno. Fuori dalla neve.