Intervista a Luca Carboni e Gabriel Da Costa, ideatori, drammaturghi, registi e performer di “Get Your Shit Together. Esercizi di approssimazione per umani” a cura di Marco Intraia e Mariasole Brusa, allievi del corso Perfezionamento Dramaturg Internazionale, nell’ambito dell’operazione “Per un sistema internazionale: Scuola di Teatro Iolanda Gazzerro” Rif. PA 2018-9877/RER, approvata con DGR 1208/2018 del 30/07/2018 e cofinanziata da Fondo Sociale Europeo, (Progetto 3).


Get Your Shit Together. Esercizi di approssimazione per umani

Uno spettacolo-esperimento per riflettere sull’immobilità, l’errore e il rapporto uomo-macchina, in scena al Teatro delle Passioni dal 14 al 27 febbraio per ERT – Emilia-Romagna Teatro Fondazione. 

Insieme avete realizzato varie performance, video e installazioni e questa è la vostra seconda produzione teatrale: che tipo di coppia artistica siete e come lavorate a un progetto?
Gabriel: Viviamo e lavoriamo principalmente a Bruxelles. Io vivo da quindici anni in Belgio e mi sono formato professionalmente qui mentre Luca è di Bologna. Adesso viviamo insieme, in coppia, a Bruxelles e ogni tanto veniamo in Italia, ma non molto. Il nostro modo di creare è un po’ speciale perché siamo nello stesso momento registi e attori e quindi il lavoro di ricerca e di scrittura sul palco è bello e complesso. C’è una prima fase dove produciamo del materiale tramite improvvisazioni in sala e contemporaneamente del materiale video come le interviste. C’è una poi una seconda fase in cui rivediamo tutto il filmato e scriviamo: è un avanti e indietro tra il palco e la scrittura.
Luca: Abbiamo una dramaturg con noi, Tatjiana Pessoa che, con il suo prezioso sguardo esterno, ci permette, tramite dei feedback al termine della prova, di interpretare, tirare le fila e impostare la drammaturgia che spesso è espressa tra il francese e l’italiano.
Gabriel: Per questo lavoro non siamo partiti da un testo ma da una tematica: abbiamo creato tutto da zero. Nel nostro lavoro di ricerca accumuliamo un sacco di materiale e cerchiamo di legarlo insieme e trovare delle linee di congiunzione per creare degli spettacoli esplosivi, che creino un mix di linee drammaturgiche differenti.

Get Your Shit Togheter è un titolo molto diretto e particolare. Com’è nato e a cosa si riferisce?
Get Your Shit Together è un modo di dire ricorrente nelle serie televisive che significa “dai riprenditi! datti una mossa! non rimanere immobile lì a non fare niente!”. Volevamo creare un’opera sull’immobilità. Siamo partiti interrogandoci sui nostri blocchi e le paure della nostra generazione di trentenni e quarantenni: dove siamo, in che mondo viviamo, cosa vediamo nel futuro. Siamo poi andati, come in un road-trip, ad intervistare altre persone e chiedere loro di raccontarci le loro immobilità. Tutte le storie hanno fatto nascere in noi l’esigenza di avere un personaggio ricettacolo di questa “spazzatura”. Ci siamo immaginati la notizia di un uomo rimasto per sei ore fermo ad una stazione di benzina con l’erogatore in mano e dove tutto è ripreso dalla telecamera di sorveglianza. Questa persona è diventata per noi il protagonista dello spettacolo, Sam: un uomo un po’ perso, che non sa bene cosa vuole fare della sua vita, che cerca pian piano di cancellarsi. Nello spettacolo vogliamo condividere con il pubblico sul che cosa sia questa immobilità, interrogandoci non sul come liberarcene ma sul come poterci convivere. 

Come avete lavorato sulla tematica dell’immobilità?
Chiedendoci e chiedendo alle persone che abbiamo incontrato nel viaggio in macchina: “Che cos’è l’immobilità per te?”: ad esempio, degli attivisti ci hanno parlato dell’immobilità come forma di protesta, un medico dal punto di vista medico o degli ex-tossicodipendenti in un centro di disintossicazione ci hanno parlato di quando hanno sentito la loro vita andare “in pausa”. Abbiamo capito che questi momenti in cui ci si sente incapaci di scegliere, di andare avanti sono dei momenti cruciali della vita di ogni persona. Nello spettacolo, in mezzo a tutto questo, c’è anche un robot: una forza informatica che non si ferma mai, non è immobile, ha tutto il sapere, non ha paura di scegliere e non è nevrotico. La storia del protagonista inventato Sam si mescola così con le nostre storie vere e fittizie, con il road trip e con il robot. Volevamo creare un viaggio dove narrare in diversi modi il movimento, l’immobilità e la paura che sentiamo nella nostra generazione, che si è sempre sentita dire: “Ma voi avete sempre avuto tutto: internet, le scelte e tutto quanto intorno a voi e non fate niente”.

L’approssimazione che citate nel sottotitolo rimanda a quella scientifica: e quindi l’errore per voi è un’approssimazione? Possiamo dire che il vostro spettacolo è un “allenamento all’errore”?
In un certo senso, sì. L’approssimazione è un modo per avvicinarsi e per attraversare qualcosa: per avvicinare una verità. Tutte le storie raccolte diventano come dei piccoli momenti in cui ci avviciniamo a Sam con delle approssimazioni: come se fosse una “prima approssimazione a Sam”, una “seconda approssimazione a Sam”, ecc.: attraverso Sam cerchiamo di approssimarci il più possibile a quello che le persone ci hanno raccontato. Il sottotitolo Approssimazioni per umani è anche il modo in cui è costruito lo spettacolo: in varie parti che assomigliano ai modi in cui l’essere umano si sviluppa e si crea. Attraversi delle esperienze o degli insegnamenti che ricevi e che cerchi di mettere in pratica, attraversi delle cose tue personali: ne esce un’esperienza personale che ti permette di crescere. Cresciamo in questo circolo che non si ferma mai. In questo sottotitolo c’è quindi un pensiero molto importante per noi: l’approssimazione è il modo migliore per fare le cose.
Sono concetti molto complessi ma lo spettacolo è di una semplicità estrema: ci siamo noi due che mostriamo al pubblico il risultato di tutta la nostra ricerca, condividendolo in maniera intima, diretta e senza paura di mostrare la nostra fragilità.

Abbiamo notato che nel vostro lavoro il palcoscenico diventa spesso un luogo di esperimenti sociali in cui a partire da un tema o una domanda date il via ad una ricerca scientifica e performativa. Qual è per voi la funzione del teatro nel contemporaneo? L’attore è un moderno scienziato?
Gabriel: per me in questo mestiere la condivisione di una storia e l’esperimento inteso come esperienza sono la stessa cosa. Sono molto interessato dove c’è gente che ci racconta la propria storia e che cerca di trasformarla, al fine di condividere qualcosa di più grande col pubblico. Ho sempre lavorato in questo modo anche quando ho lavorato con dei registi o su creazioni mie. Non ho mai lavorato nella modalità “iniziano le prove e c’è già un testo”.
Luca: è come se cercassimo di vedere come riusciamo a scrivere la nostra esperienza in modo che diventi universale ed essere colta da tutti.
Gabriel: diventa un esperimento all’interno dello spettacolo. il modo di cominciare a lavorare sullo spettacolo o proiettare spettacoli che costruiamo insieme. Non so se sono chiaro in quello che sto dicendo. Anche in un’intervista ci sforziamo di “approssimarci” a quello che vogliamo veramente esprimere.

Avete collaborato anche con un centro di ricerca scientifica – il Polo nuove tecnologie di Modena. Che rapporto c’è per voi tra arte e tecnologia oggi? Perché un robot in scena?
Sì, abbiamo collaborato con il laboratorio di nuove tecnologie che sta nascendo a Modena. Siamo molto interessati a come l’uomo sarà nel futuro e indaghiamo con il mezzo teatrale il rapporto uomo-macchina.
Nei nostri spettacoli c’è un grosso engagement tecnologico, di proiezioni, ecc.: non tanto per portare la tecnologia a teatro ma per parlare della tecnologia. Ad esempio, il robot che usiamo in scena è dichiaratamente finto, non vogliamo far credere che ci sarà una macchina intelligente che interagirà con noi e il pubblico: ci interessa fingere e poter parlare di questo dicendo “Guardate il robot è finto, sappiamo che è tutto finto e tutto scritto. Però quello che possiamo fare con il teatro è scrivere una parte sul copione per lui che sia al modo di parlare dei robot di film di Spielberg e vedere come l’uomo può interagire con la tecnologia in questo senso.

Ci chiediamo spesso in che misura le macchine sostituiranno l’uomo nelle attività lavorative. Secondo voi può succedere anche in ambito creativo? E un robot può fare arte?
Luca: Sì, sta già accadendo. C’è l’esperimento di Turing in cui si mette un uomo a contatto con una macchina e l’uomo deve capire se è una macchina o un uomo. Io sono molto aperto all’arte creata dall’intelligenza artificiale anche perché l’uomo si serve già delle macchine a livello creativo e quindi non avrei problemi ad accogliere un’opera di arte visiva creato da una macchina.
Gabriel: A me piace immaginare che continueremo ad esser completamente collegati con la tecnologia e le nuove tecnologie. È un bene che il teatro sia l’unico spazio ancora oggi dove c’è un essere umano che presenta qualcosa ad un altro essere umano, perché la vita è così: impariamo perché una persona sta compiendo un’azione e io posso provare empatia, posso esserne colpito. Io sono sicuro che il teatro continuerà a vivere anche se la gente dice ma il teatro tra poco sarà morto perché l’uomo ha bisogno di un luogo fisico per guardarsi allo specchio e connettersi agli altri.
Luca: Anche per questo abbiamo iniziato a mettere molti video in teatro perché noi pensiamo che se il teatro deve essere lo specchio di quello che viviamo o vediamo nella società adesso noi siamo continuamente in rapporto a degli schermi, a dei video e quello che ci interessa portare in teatro non è tanto come il video può creare la scenografia ma portare a teatro il modo in cui, al giorno d’oggi, ci si rapporta agli schermi.
Gabriel: Ci chiediamo spesso come portare la tecnologia nel teatro e nell’arte? Con questo spettacolo non vogliamo far passare il concetto che la tecnologia stia togliendo la possibilità all’uomo di essere un umano ma proponiamo di aprirsi e andare oltre. Come ci comportiamo noi con questo cambiamento? Io adoro l’Effetto Pratfall: l’uomo vuole che nell’interazione macchina-essere umano le macchine mostrino segni di imperfezione in modo da mostrare più empatia con loro. Ovvero i robot che interagiscono con gli umani sono programmati per fare degli errori ed essere più simpatici agli stessi umani: creiamo dei difetti nella macchina per riuscire a vivere con la macchina.

Qual è secondo voi il rapporto tra creatività ed errore?
Luca: Il mio è assoluto. Per esempio la prima cosa che faccio quando comincio a montare un video per un nostro spettacolo è buttare dentro tutto il materiale e vedere cosa viene. Questo è un errore dal punto di vista delle tecniche di montaggio, quindi faccio proprio questo: parto da un errore. Da lì prende avvio il lavoro. Prima parlavamo di fragilità, credo che la capacità di accettare i propri sbagli debba essere al centro della creazione: ci siamo sbagliati, sbagliamo e proprio questo è al centro della nostra ricerca. Infatti cominciamo lo spettacolo dicendo che abbiamo scelto una tematica complessa e raccontiamo quanto è stato appunto complesso affrontarla lavorando insieme come registi e essendo al contempo anche una coppia. Un vero casino. Ma abbiamo ammesso dall’inizio la nostra fragilità. In teatro, per noi, la ricerca della perfezione è qualcosa di deleterio. L’esperienza attoriale è andare sul palco con tutto quello che c’è da fare in testa, esporsi ai riflettori, allo sguardo dell’altro … non puoi avere paura di sbagliare. Lo sbaglio inoltre è qualcosa che al pubblico interessa profondamente, è interessante interrogarlo. Chiedersi da dove nasce e a cosa porta. Indagare quel nostro lato voyeurista che ci fa venir voglia di veder l’altro sbagliare, per esempio quando si guarda un atleta compiere un’evoluzione, il suo sbaglio ci attira, ci porta la realtà.

Dagli errori sono nate scoperte scientifiche importanti: anche la birra, per esempio, è nata da un errore. Qual è l’errore più utile che avete fatto?
Gabriel: Ce ne sono tantissimi. Per esempio il lavoro con il robot è stato molto complicato anche perché abbiamo lavorato con persone al di fuori dell’ambito teatrale che avevano tempi e modalità differenti dai nostri. Alla fine abbiamo dovuto posticipare il debutto dello spettacolo di un anno, non l’avevamo previsto ma questo ha permesso di allungare i tempi e avere più tempo a disposizione è diventato un elemento fondamentale. L’uomo della nostra storia inizialmente sostava tre ore alla stazione di servizio, poi le ore sono diventate sei! Tutto si è dilatato, anche la nostra riflessione. Inoltre, il robot durante lo spettacolo lo odiamo, lo insultiamo proprio, e questo è dovuto anche agli errori affrontati nel percorso, ci siamo ispirati nella messa in scena alla realtà che abbiamo vissuto.

Vi definite in qualche modo particolare? Avete una sorta di “etichetta” che vi contraddistingue?
Luca: Noi di fatto abbiamo come obiettivo il raccontarvi una storia che è la nostra storia e riguarda l’esperimento che abbiamo fatto su noi stessi come cavie. Ci rendiamo cavie dell’esperimento che cerchiamo di fare.
Gabriel: Il nostro lavoro è molto performativo, incentrato sulla nostra esperienza personale e intima ma al contempo raccontiamo storie. Non conosco molti artisti che mescolano in questo modo storie e realtà. Noi creiamo un intreccio di realtà attuale e di finzione per confrontare il mondo crudo con quello che immaginiamo.

Lo spettacolo è cresciuto in contesti internazionali: che differenza c’è tra il teatro vissuto e creato all’estero e quello nato e fruito in Italia?
Luca: Io mi sono trasferito in Belgio e quello che per noi in Italia è usualmente considerato teatro di ricerca qui è il teatro di tutti i giorni. Anche il pubblico è più abituato. Inoltre il teatro in Belgio è già sdoganato sull’autorale: si cerca di portare nuovi testi, nuove idee, la scrittura dell’autore ha una grande importanza.
Gabriel: Ci sono però festival e realtà in Italia che sono riconosciuti a livello internazionale come il Festival di Santarcangelo per esempio. Ci sono esempi a cui il resto dell’Europa guarda con ammirazione e interesse. Spero che l’Europa si apra sempre più alle produzioni italiane.

Siete un po’ artigiani e scienziati, insomma.
Luca: Sì, facciamo tutto noi dal testo alla tecnica, anche spingere i bottoni delle luci.
Gabriel: Quello che ci interessa è soprattutto il lavoro cooperativo: mettersi al servizio di un collettivo e vedere come più teste possono sviluppare una stessa idea. Passiamo un sacco di tempo a litigare e a scontrarci ma è questo che ci interessa. No, non litigare! Ci interessa capire cosa e come pensa la gente e come da una stessa idea può scaturire qualcosa di nuovo e diverso.