Soffro ma sogno.
Per questo io vivo.
Sognando.
Mi immergo in quello che ho dentro
che vedo anche se non esiste;
che perdo, se il giorno seguente diventa reale.
E cerco chi sono, chi fingo di essere, dove mi nascondo,
lenisco il dolore sognando,
è l’unico senso reale.
La vita poi, in fondo, è ciò che in lei non immaginiamo […].

Curvo su un sipario rosso, legato come un Cristo in croce: è così che la figura di Gianfranco Berardi si staglia nel buio. Il sipario rosso è la sua croce. L’arte è la sua corona di spine. Il teatro è la sua passione, nel senso cristiano del termine: è sofferenza.

Fotografia di Elisa Magnoni

L’Amleto che incontriamo stasera si muove su un palcoscenico pressoché vuoto e si pone domande sulla relatività dell’esistenza. Sulla felicità autentica e quella ostentata. Sul chi siamo e chi mostriamo di essere, cercando (e trovando) un equilibrio perfetto tra reinterpretazione del mito e inseriti biografici. Il lavoro di Amleto Take Away di Berardi-Casolari è infatti uno spettacolo dalla doppia anima.

Fotografia di Elisa Magnoni

Nella prima parte dello spettacolo assistiamo ad un susseguirsi di rapide istantanee di vita vissuta. Fotogrammi rubati dalla memoria del protagonista che scherza con il personaggio che interpreta, ora calandosi all’interno di Amleto, ora uscendone ed interpretando sé stesso: si osserva il rapporto che l’attore ha con il padre, un operaio pugliese dell’Ilva.

Appariva. Bianco, pallido, sudato, l’espressione crucciata, gli occhi rosso sangue, i capelli bianchi arruffati in una specie di criniera, che rientrava a casa da quelle fiamme di inferno, bardato nella sua divisa dell’Ilva.

Il tempo del racconto poi fa un rapido scatto avanti: voliamo a Londra, con un Amleto quasi diciottenne ed il padre che nasconde “venti milioni accartocciati ed infilati negli slip”. E ci ritroviamo con il protagonista davanti ad un medico di cui a stento Amleto riesce a comprendere la lingua. Siamo con lui quanto gli viene diagnosticata la sua malattia, quella reale dell’attore: la Leber. Sentiamo assieme a lui quello che il medico gli comunica: che la sua è una malattia di cui non esistono cure, con un decorso irreversibile, che resterà quasi completamente cieco. Ma che, però, possiede una fortuna: gli concederà comunque di continuare a percepire la luce. Il padre si lascia cadere su una sedia, piangendo. Amleto però non vuole mollare, non tutto è perduto.

E dai papà non fare così, smettila, non è successo niente. […] mica è un tumore che uno ci rimane, dai, l’importante è essere vivi. […] E poi ci danno il cartellino per il parcheggio, possiamo andare dappertutto insieme: nella Ztl, davanti al Vaticano, non dobbiamo più fare le code. […] Magari divento un artista, che ne sai. I più grandi sono tutti ciechi papà: Ray Charles, Totò, Beethoven era cieco.

Nella seconda ed ultima parte dell’anima di questo spettacolo, il duo Berardi-Casolari ci mostra, con ironica crudeltà, cosa siamo diventati in rapporto all’uso estremo e ossessivo dei socialmedia: ciò che conta non è “essere o non essere” ma “vivere o apparire”. Il protagonista indossa le vesti di un Amleto usa-e-getta, incarnando il simbolo dell’uomo della nostra epoca, dove i selfie e le foto allegre su Instagram sono la cosa che realmente ha importanza.

To be or FB, questo è il problema! Chiudere gli occhi e tuffarsi dentro sé e accettarsi per quello che si è, isolandosi da community virtuali per guardare da vicino e cercare di capire la realtà in cui si vive? O affannarsi per postare foto in posa tutte belle, senza rughe, seducenti, sorridenti, grazie all’App di Photoshop?.

Meglio non vedere. E chiudere entrambi gli occhi. Ma anche qui il non vedere non è assoluto: come la cecità del protagonista, possiamo avere comunque la percezione della luce. Che continua, imperterrita, a vivere e sopravvivere.

Fotografia di Elisa Magnoni

Lo spettacolo risulta grottesco, comico, la recitazione di Gianfranco Berardi è estremamente fisica e geniale. L’attore è davvero un “animale da palcoscenico”, come verrà successivamente definito da Gabriella Casolari stessa nell’incontro post spettacolo, organizzato dal Teatro dei Venti e da La Konsulta: possiede una padronanza del proprio corpo e dello spazio scenico che sono innate e commoventi. Per quanto riguarda la scrittura della drammaturgia, mi preme sottolineare che ci sono punti del testo che raggiungono livelli davvero sublimi: sono soprattutto i passaggi in cui si parla di amore. In queste scene sul palco vediamo coinvolta direttamente anche Gabriella Casolari (che per il resto dello spettacolo è rimasta in secondo piano fungendo il ruolo della Custode): è in queste parole che la fragilità della vita si mostra realmente. Percepiamo la fine, una fine. Ma sentiamo comunque tutta la forza e la bellezza che essa tiene stretta a sé.

Sentire una fine, avvertirla sulla pelle,
l’inevitabilità di una fine.
Senza poter fare niente o voler più fare niente.
Non è più il tempo delle parole.
La mia bocca è serrata.
Non riesco a sorridere. […] .
E poi di colpo,
di colpo il corpo che piange,
ogni millimetro della pelle che piange.

 


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Teatro dei Venti – Via S.Giovanni Bosco 150/b, Modena