#3settimane33giri prosegue con i consigli di Zanna, il barista di Radio Antenna 1.

S’AT VEN IN MEINT – PIERANGELO BERTOLI

(1978, CGD)
Artwork di Studio CGD

Non sono più un ragazzino e comunque anche quando lo ero, non mi sono mai potuto definire un tipo da bar… stare al bar non è mai stata la mia passione: sempre preferito gli spazi aperti. Però nell’ultimo periodo, un bicchiere di rosso o un mezzo nocino e soprattutto due chiacchiere in dialetto me le faccio volentieri, magari dopo aver girovagato per boschi e posti impervi. Al bar, ovviamente. Il dialetto, poi: quello mi è sempre piaciuto e ho sempre fatto di tutto per impararlo. Il mio è un mix dovuto alle mie origini fra Appennino e pedemontana, fra Reggio e Modena e alle mie esperienze di vita che fra le due province hanno danzato, fino alla bassa. Mi incantavo davanti a mia madre seduta, al telefono con il mio ormai defunto nonno materno: mi lasciavo cullare da quel dialetto stretto e pieno di gutturali, non lo stesso, ma molto simile a quello che ora sento quanto torno dai boschi e mi infilo al bar.

Adesso… magari…

Adesso i boschi li posso solo sognare, ma di questo ne parliamo magari dopo. Mi mancano i boschi, ma devo ammetterlo anche il bar e soprattutto il dialetto da parlare, come mi è capitato qualche settimana fa con un uomo dal fortissimo aspetto e, soprattutto, accento nordafricano quando parlava l’italiano che scompariva magicamente mentre mi diceva in perfetto dialetto local: “dai! Buvne un’ater! A te pag me!”… mi manca in dialetto dei bar…

IN A BAR, UNDER THE SEA – DEUS

(1996, ISLAND RECORDS)
Artwork di Rudy Trouvé

Beh, in realtà devo probabilmente ammettere che, sì, forse sono un tipo da bar più di quanto immaginassi, tanto che ho aperto un Bar radiofonico in cui mi piace piantar grane e questionare fino allo sfinimento. Si sono “tacalit” (eh, il dialetto), ma poi alla fine preferisco sempre finire con il ciocco di un brindisi, che con quello di uno schiaffo (mai fatto a botte in vita mia). In bar ci ho lavorato anche tanto negli anni ’90, per mantenermi studi e passioni, tipo comprare i dischi che mi hanno fatto innamorare e poi i dischi che ascoltavo mentre ero innamorato. Quegli innamoramenti tristi non ricambiati. Stella cercavo di conquistarla con le letture che all’epoca erano una passione purtroppo ora sacrificata. Un pomeriggio interno nel caldo di fine primavera al Parco Ducale di Sassuolo, dopo il turno del mattino al Bar Luana, a parlarle di Sartre e altri libri con cui pensavo di fare il figo e lei se ne esce dicendomi: “mi sei simpatico Antonio, sei anche molto carino, ma fra noi non può funzionare: tu sei troppo triste e riflessivo, io ho bisogno di leggerezza…dovresti divertirti un po’. Davvero, divertiti!” Il bel tenebroso aveva toppato di brutto ed io tornai a casa con le pive nel sacco, misi su questo disco e poi mi misi a leggere “Bar Sport” di Benni. Fanculo Sartre. W il Bar! Si cazzo, mi manca il Bar…

NOW I GOT WORRY – THE JON SPENCER BLUES EXPLOSION

(1996, MUTE)
Artwork di Deanne Greco

Finito di leggere il Bar Sport e dopo diversi pomeriggi in clausura volontaria (li mortacci mia!!!), decisi che era ora di reagire, di uscire di casa e fanculo oltre che a Sartre anche a Stella, che vuoi vedere come mi diverto! Scappo al Temple Bar o meglio al Teatrino della casa nel parco e con il cuore zuppo della delusione del rifiuto, mi butto sulla birra e sulla danza sfrenata. Che non si azzardi ad avvicinarsi una ragazza: poi si avvicina questa e ci sediamo per delle ore a parlare sull’angusta scaletta che tirava su verso la fumosa sede del circolo Fahreneit. Ci scostiamo solo per fare passare chi sale e scende ma quasi in trance agonistica. Ci ho anche pensato a provarci, ma alla fine era più interessante stare a discutere, per quanto fosse proprio bellina. La festa impazza e noi continuiamo a raccontarcela. Mica mi ricordo cosa ci siamo detti, non credo nemmeno lei (se dice di sì non credetele!), so solo che adesso quella ragazza è una delle mie più grandi amiche…onestamente mi viene da dire la migliore. Non ne sono sicuro perché sono passati troppi anni, ma secondo me qualcuno mentre parlavamo, ad un certo punto, ha messo su un pezzo da questo disco e anche se lei crede che quando la penso a me risuoni in testa “Loser” di Beck, quando accade, in realtà mi rimbomba nelle orecchie l’urlo sguaiato di libertà con cui inizia questo disco…mi manca la mia amica Lara, mi manca andare in un posto e bere e chiacchierare seduto sulle scale o su un muretto con persone che è bello stare ad ascoltare…

MUSIC FROM THE LAST COMMAND – JULIE’S HAIRCUT

(2019, SUPERLOVE)
Artwork di sconosciuto

Che poi secondo me quello che in quel momento scancherava dietro l’impianto alla festa del Temple Bar e visto che si parla di amici speciali e di serate in quel posto, era Luca. Una cosa è certa, lui quella sera in giro c’era. Io e Luca eravamo in classe alle medie assieme e per un lungo periodo amiconi. Almeno io lo ricordo così, non gli ho mai chiesto se per lui era uguale tutto questo bene che gli voglio. Non è che si chiedono queste cose, sai che smerdata se ti dicono di no? Devo dire che però ci fu quella volta che uscii di casa dopo un’altra delle mie stupide settimane di autoclausura (arimortacci mia!), dentro le stesse mura dentro le quali sono forzatamente confinato in questo periodo e proprio dalla stessa stanza da cui scrivo ora, che un tempo fu la mia camera da letto. Beh dicevo, che quella volta lì uscii con la chiara intenzione di ubriacarmi e devo dire che quella volta Luca mi dimostrò di volermi molto bene. Penso sia stata l’unica volta in cui il mio scopo era quello di ubriacarmi: niente piacere, gusto o altre scusanti. Scassarsi e fottersi la testa per qualche ora. Lo raggiunsi a suon di Rum, lo scopo prefisso. Sono uno che se si mette in testa una cosa, difficilmente gli fai cambiare idea. Se bevi anche il decimo l’undicesimo te lo offro disse Rino e Luca mi pregava di non farlo. Inondai il pavimento con tutta la cena e il rum mischiati assieme. Luca mi accompagnò fuori. Mi aiutò e mi ripetè che ero un coglione, ma stava lì. Dudu bestemmiava mentre puliva il mio disastro. Che bella quell’aria freschissima che mi ridava cognizione. La balla mi passò in pochi istanti…che bella la sensazione dell’aria fresca. Deliziosa, mi viene da dire. Come questo disco, come dissi proprio qualche settimana fa a Luca che lo ha composto assieme ai suoi compagni nell’avventura musicale chiamata Julie’s Haircut…deliziosa questo disco e quell’aria fresca. Mi manca la sensazione di libertà dell’aria deliziosa e anche se ci vediamo poco, ovviamente mi manca anche Luca…

IL MONDO IN POESIA – LUIGI TENCO

(2006, SONY BMG)
Artwork di sconosciuto

Eh, l’aria fresca…la migliore è quella della montagna. Grande amore per me: la Montagna. Tutto ciò che puoi fare in montagna a me piace e lo faccio volentieri. Da scivolare giù per un pendio innevato  (magari…che da un paio di anni se ne patisce altro che la voglia) a sgugnare su per grippi scoscesi. Lo ammetto, questa clausura obbligata per me è davvero sofferenza oltre misura. Non mi frega nulla degli aperitivi, ma la montagna…quello era il posto in cui scappavo tutte le volte che avevo bisogno di ritrovare il senno, perso per rabbia, delusione o dolore. La montagna però è anche piena di amore. Un posto romantico. Un posto pieno di sogni, a volte malinconici, altre focosi e sfrontati. Proprio come le canzoni di Luigi Tenco, che virano dallo struggente, al fatalista, passando per l’irriverenza. Mi ricordo bene quella volta di tanti anni fa, quando salendo per la sconnessa stradina che da Villa Minozzo porta a Monte Orsaro, costeggiando il rugoso profilo sbilenco del Monte Urano (o Torricella), abbassai il finestrino che assieme all’alba, fece così entrare anche l’aria fresca (appunto), riempita di canti di uccelli e scrosciare di cascatelle turbolente. Di lì a poco la curva più bella dell’Appennino con lil mio amato Cusna pronto a sbattermi la sua immensa meraviglia sul muso. Avevo appena lasciato l’afa di Piastrella Valley e anche purtroppo una vita durata qualche anno. Le budella sotto sopra per aver visto affogare i miei sogni, si riebbero quel mattino sputando fuori dal finestrino le canzoni di questa raccolta, cantate a squarciagola nella solitudine appena arrossata dal pallore delle prime luci. Erano si e no le sei del mattino. Mi manca la montagna, il rumore dei ruscelli e vedere l’alba risvegliare i boschi…

SOLO MONK – THELONIOUS MONK

(1965, COLUMBIA)
Artwork di Paul Davis

Che se c’è un’altra cosa che adoro della montagna è la solitudine. La compagnia è fondamentale e in montagna mi piace portare le persone, soprattutto andarci con chi amo: gli amici e le persone rendono l’esperienza della condivisione magica e speciale, ma a volte la solitudine riesce ad amplificare queste esperienze in modo così forte e potente da sentirne ogni tanto il bisogno. Come quella volta che decisi di affrontare la temibile Alpe di Succiso. Faceva un caldo impressionante e il primo tratto, dal Passo del Cerreto, fino alle sorgenti del Secchia mi aveva già spossato. L’umidità tremenda si condensava in nuvole rapide nella vallata sottostante, che scorrevano come un rullo continuo affettato dalle cime più alte attorno a me. Gettai la testa sotto la fonte che esce dalle rocce e poi proseguii. Mi concentrai, mi lasciai trascinare dalla concentrazione per la precisione. Ve l’ho già detto: se mi metto in testa qualcosa difficilmente demordo e così in un batter d’occhio mi trovai completamente solo sul crinale, al di là del temibilissimo Passo di Pietra Tagliata. Ora nuotavo sulla fatica e poco dopo eccomi in vetta: SOLO!!! Come diceva Bonatti per imprese vere e non microscopiche come questa (ma ognuno ha la propria dimensione, quindi per me questa era immensa), le scalate/camminate sono eccitanti fin dal loro concepimento. Fu ascoltando questo disco, in ufficio al lavoro e poi ancora in auto e infine a casa, che ad un certo punto mi dissi che dovevo salire sull’Alpe da SOLO! Tornato alla macchina che mi aspettava ormai da circa 7 ore, così come il barista del Passo, che sorrise di sollievo quando mi vide rientrare (“dove vai da SOLO, mi aveva chiesto…ok, fai a modo, mi raccomando!), mi cambiai i vestiti zuppi di fatica e riposi gli scarponi polverosi nel baule, poi attaccai l’autoradio e partì ovviamente Dinah…vi stupirà, ma mi manca stare solo e non vedo l’ora di starvi lontano per scelta, non per obbligo…mi manca stare solo per scelta…

THE COMPLETE WORKS – SPIRITUALIZED

(2003, BMG)
Artwork di Farrow Design & Spaceman

Ma andare in montagna non è l’unico modo per stare solo che nella normalità ho l’opportunità di godermi, così come la rabbia e il desiderio di impresa, il sogno, non sono le uniche motivazioni che mi spingono ad isolarmi, se possibile. Ci sono anche la moto, come strumento e la malinconia come movente. Moto e malinconia, spesso si sono fusi nella mia vita. Farsi cullare dalle curve e perdersi volutamente nella viabilità minore, mentre si macina inspiegabile magone, può rendere tutto semplicemente perfetto. Vi sembrerà strano, ma è esattamente così! Come quella volta che avevo da poco ritirato la moto nuova. Era metà agosto e la malinconia in quei giorni mi divorava, come mi capita spesso nel mese del solleone e delle ferie. Non ricordo perché, spesso non c’è un perché. Partii senza meta. Nessuna pianificazione, ma ad un certo punto un pensiero fugace. Tutti quegli altri, malinconici, si fondevano con l’insistenza di “Feel so sad” di Spiritualized che in questo disco/raccolta è rintracciabile in ben tre versioni. Dovevo per forza arrivare alla vivacità di Run che in scaletta le segue: per la precisione arriva dopo un tappeto di quasi venti minuti di malinconia cosmica ed esplode nella serenità…la mia Run quel giorno fu vedere il mare. “Come il mare?!? Ma hai detto che andavi verso Carpineti!”. Io da Carpineti c’ero passato, ma dietro le montagne c’è il mare. Abbastanza in là dopo migliaia di curve. Il Golfo di La Spezia spense Feel so sad e accese Run. Mi manca poter prendere la moto e farmi i miei viaggi, mentali oltre che a casaccio per le curve dell’Appennino. Mi manca il tiro della coppia del Bicilindrico a V e i mi mancano i ciocchi del cambio ritmare il mio passare dalla malinconia alla serenità…

THE COMPLETE COLLECTION – ROBERT JOHNSON

(2006, NOT NOW)
Artwork di sconosciuto

Ma andare in moto ha spesso voluto dire compagnia e baldoria con amici. Giornate speciali dense di libertà, chiacchiere e birre. Tanti chilometri e tanti paesaggi, poi le soste. Quelle per la benzina, quelle per pisciare, ma soprattutto quelle per bere e mangiare come l’ultima volta l’autunno scorso quando con un gruppo di amici abbiamo sconfinato in Toscana per svaligiare il celebre ristorante di Col d’Arciana e fare indigestione di funghi. Oppure come quella volta che io e Tacco siamo andati a finire in provincia di Genova, passando per l’appennino reggiano prima, parmense, poi. A tavola non ci siamo tenuti e mangiato come se non ci fosse un domani. Fra un bicchiere e l’altro tante chiacchiere di musica e salta fuori questo lungo discorso su Robert Johnson. Io il blues delle origini non lo conosco. Sempre snobbato…colpevolmente. Tacco me ne parla con un trasporto tale, che sarà anche colpa del vinello e dall’euforia inebriate di quel sabato di libertà, dei paesaggi e dell’ottimo cibo, ma io non vedo l’ora di approfondire. Prendermi una cotta per il sabbioso e tritato suono di Johnson è ovviamente un attimo. Mentre lo ascolto mi do del cretino, ma poi, in realtà ammetto solo che c’è tantissimo da imparare e spesso il modo migliore di farlo e parlare con le persone. Mi manca parlare di musica, non vogliatemene, con Tacco in particolare, ma anche in generale…quanto mi manca parlare di musica…

SOUND OF CONFUSION – SPACEMEN 3

(1986, GLASS)
Artwork di Steven Evans

E dire che nel recente mi aveva spaventato dover parlare di un disco. Sono tanti anni che in radio ho scelto di allontanarmi dalla divulgazione musicale. Non ho più il tempo per stare aggiornato come penso dovrei e probabilmente non trovo nemmeno più stimoli per mettermi dietro ad un microfono a fare ciò che ho fatto per tanti anni, cioè stare lì a dire titoli, date, aneddoti srubacchiati dalle riviste specializzate e dai siti online. Per questo mi sono sentito spiazzato quando mi hanno chiesto di partecipare all’iniziativa “Words on Wax”. La serata invece è stata meravigliosa. Un’iniezione di calore e di fiducia, che serviva. Come rompere una campana di vetro sotto la quale non ci si ricorda nemmeno bene come si è finiti. Non so se ho detto cose interessanti e in modo interessante, ma preparare e vivere quella serata mi ha fatto tornare voglia di parlare di dischi. L’ho anche detto con Andrea, il mio nuovo socio del Bar Snob, che non mi spiacerebbe ideare un programma legato a quell’esperienza. Perché anche se in realtà le mie più grosse fortune nella mia piccola carriera come Dj le devo ai locali da ballo, il mio grande amore è sempre stata la radio. Inutile dire che per me la radio è più che una passione, un pezzo di vita e il pezzo più grande lo devo lasciare per Antenna 1. Io sono così anche grazie a lei, forse lei è così anche grazie a me. Questo disco lo scelsi perché, come dissi quella sera alla fonoteca dedicata a Max, se c’è un gruppo che trovo indissolubilmente legato ad Antenna 1 sono proprio gli Spacemen 3. Mi manca Max e quello, vabbeh, non passerà con il finire della pandemia; mi mancate voi ascoltatori, mi manca la radio, mi manca Antenna 1…

TOXICITY – SYSTEM OF A DOWN

(2001, AMERICAN)
Artwork di Mark Wakefield

Non posso dimenticare, però, le serate nei locali se voglio essere corretto con la mia storia e di storie, che come si sarà capito mi piacciono (sentirle, raccontarle, leggerle, scovarne), legate ai locali, ne avrei a centinaia. Non saprei sceglierne una in particolare in questo momento. Non mi sarei mai aspettato di riuscire a scegliere un disco per ricordare questo frammento della mia storia , ma invece eccolo qua, ad istinto. Mi sono girato e l’ho visto lì e mi sono risuonate in mente le decine di volte in cui la pista è impazzita sotto la consolle in cui stavo smanettatto: l’Oasis, il Vox, la stalla del Libera a Marzaglia, il Condor, il Vibra, l’Off, la Festa della Libertà a Zocca e tutti i posti in cui ho avuto il piacere di mettere i dischi e ballare con tanti (i più vecchi), di voi, in tanti anni. Prima dell’uscita di questo disco anche al Tempo, all’Allimite, all’Angelo di Suzzara e via discorrendo. Ultimamente a chi mi chiede quando farò la prossima serata dico che spero mai più. Non mi ci vedo più. Mi sento fuori posto. Prima. Poi mentre ci sono pare che sia il posto migliore in cui potessero mettermi. Così quando Andrea mi ha chiesto se potevo curare con lui la serata al Vibra, post concerto dei Julie’s, ho un po’ titubato, ma non si dice no quando ti chiedono di fare qualcosa per Antenna 1. Ora quella serata non si farà più. E mi manca tremendamente averne l’opportunità. Chissà se potremmo fare la serata per il Quarantennauno in Piazza a Fiorano a fine Maggio, dove avrei dovuto curare il Dj set. Già, devo ammetterlo perché se devo smettere lo voglio fare per scelta non perché un cazzo di virus me lo impone! Non ho mai fatto ciò che mi pare, ho mille limitazioni come tanti di noi. La vita mi impone degli obblighi: i figli, la famiglia, il lavoro, i limiti economici, di tempo…comunque mi manca poter scegliere cosa fare e cosa no. Ah ecco perché… Prison Song…

A presto!