Come le rette, anche i segmenti sono un insieme infinito di punti. Ma il segmento, a differenza della retta che segue un infinito orizzontale, ha un infinito “verticale”: ogni punto converge all’infinito verso l’interno del segmento, andando sempre più a fondo, dando vita idealmente a una forma conica, a imbuto.

Questo accade nella geometria, nella fisica e, nel nostro caso, nell’arte.

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Foto di Davide Mari

Marco Massarotti è un artista che lavora sul tempo e sull’individuo, due temi assoluti che trasporta sui suoi supporti materici.

La natura artistica di Marco è legata a doppio filo al teatro, luogo nel quale il tempo si perde, si ferma, si trasforma e dove l’individuo viene plasmato sul personaggio.

Il processo creativo che porta l’attore a identificarsi nel proprio ruolo è del tutto analogo alla regola geometrica del segmento: analizzare la storia del personaggio in ogni punto permette di poter andare sempre più in profondità, verso il centro dell’individuo, fino alla scoperta dell’emozione.

Marco, abruzzese di nascita, ha una laurea in ingegneria aerospaziale. Grande amante dell’arte e della musica fin da adolescente, decide però di fare una scelta “sicura”, contando sugli studi ingegneristici, nel caso in cui l’arte si rivelasse un vicolo cieco. Per questo si trasferisce a Forlì.

Durante gli anni dell’università inizia a frequentare i laboratori di teatro che, pochi mesi dopo, lo portano a iscriversi alla facoltà di Discipline e Tecniche dello Spettacolo dal Vivo, un corso durato poco più di un anno in convenzione con l’Accademia di Belle Arti di Forlì.

Dopo qualche anno da girovago con il Teatro Potlach di Fara in Sabina, arriva a Modena nel 2017 per lavorare con Čajka Teatro.

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Foto di Davide Mari

       

Quando nasce la tua produzione come artista visivo?

Nel 2014 lavoravo in un locale in Abruzzo nel quale facevamo tanta musica e, una volta al mese, organizzavamo delle mostre temporanee frequentate spesso anche da curatori.

All’interno del locale c’era un piccolo arco nel quale i vecchi proprietari avevano messo l’installazione di un uomo creato con lo scotch a grandezza naturale. Siccome era rimasto vuoto ho creato un omino di carta e nastro isolante ispirato a quello che c’era prima.

Uno dei curatori che frequentavano il locale l’ha visto e mi ha chiesto di crearne altri, elaborando un pensiero.

Così ho dato vita a una serie di installazioni che ho chiamato Minute. Volevo che rappresentassero una riflessione sul tempo e sulla sua percezione: un momento è potenzialmente infinito e può quindi essere dilatato o contratto, questo nel teatro accade spesso.

 

È un processo inverso: sei partito prima dall’oggetto e dalla sua creazione invece che da una teoria.

Prima ne ho creati alcuni. Diciamo che mi parlavano Lo facevo in maniera inconscia, riproponevo delle cose che per me avevano un eco teatrale, dal materiale alle posizioni.

Mi piaceva come si piegava la carta, amavo il nastro isolante perché è un materiale povero, che “parla”, è qualcosa che in teatro hai sempre con te.

Poi ho pensato al “perché”, io faccio teatro e l’ho voluto trasportare nei Minute: ho sempre fatto teatro per “sentire”, perché nella vita si fa un po’ fatica a manifestare il sentimento.

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Foto di Davide Mari

 

Il teatro è qualcosa che è profondamente legato a ogni tuo processo creativo, come influisce nella realizzazione dei tuoi dipinti?

Il processo che utilizzo nel teatro e nella pittura è lo stesso: per non cadere nella ripetizione e sembrare finto introduco sempre una novità, oppure un problema, in questo modo sicuramente non sarà una ripetizione meccanica.

Ad esempio, nell’ultimo spettacolo che ho scritto, ho recitato nei panni di Felice Pedroni, un uomo di Fanano che è partito per l’Alaska, ha trovato l’oro e ha fondato la città di Fairbanks.

Quando racconto questa storia non lo faccio come se fosse un monologo, ma a ruota libera. Questo porta a giocare con il pubblico, a cambiare sempre, a rinnovarti.

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Foto di Davide Mari

 

È un vero e proprio processo di interiorizzazione, come lo trasporti sulla pittura?

Esatto, lo storytelling è un’altra arte, la storia la devi guardare dall’alto e devi essere in grado di raccontarla a tuo piacimento, dalla fine, da un qualsiasi punto centrale, o dall’inizio.

Tutto questo lo traspongo nei dipinti buttando dentro al quadro materiali nuovi che non so come possono comportarsi o che effetto possono fare.

Il mio primo progetto si chiamava Silere ed era costituito da dei disegni su carta che rappresentavano delle figure umane contornate da segmenti. In questo primo progetto si univano quelle teorie sull’individuo e sull’infinito che avevo iniziato ad approfondire nei Minute e che continuo tuttora con Apeiron, la mia ultima serie.

 

La figura umana è sempre centrale nella tua produzione artistica, certamente un aspetto fondamentale per un attore, ma perché decidi di rappresentarla in modo così indefinito?

Lo scopo dell’arte secondo me è quello di trasmettere qualcosa, io valuto l’arte attraverso l’emotività, se una cosa mi trasmette emozione ha un senso.

Al momento l’unico strumento che ho per poterlo fare è attraverso la figura umana. Ho provato a fare dell’altro, ma non riesco a dargli un senso per me stesso.

Per quanto riguarda le figure, associo spesso i miei dipinti a delle nebulose perché mi piace pensare che nell’arte ci debba essere una collaborazione tra l’artista e lo spettatore: io ti tendo una mano, ma tu che guardi devi avvicinarti e partecipare attivamente. Oltre a questo amo molto la casualità.

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Foto di Davide Mari

 

La casualità è intesa sia come sperimentazione di materiali diversi che come creazione di forme casuali?

Non avendo studiato tecniche particolari, vado molto per esperienza. Ad esempio, da poco ho iniziato ad usare il bitume ad acqua, che mi permette di creare forme dal contorno indistinto.

Oltre a questo la casualità viene alla luce nel momento in cui utilizzo l’acquaragia o altri solventi per togliere chimicamente alcune parti del dipinto: si creano delle reazioni che non riesci sempre a controllare, non si sa bene cosa esce.

Poi nel momento in cui vado a togliere mi si accende un’altra lampadina: spesso mi accade di creare qualcosa che non mi piace, ma che, andando a cancellare, casualmente diventa qualcosa di nuovo e inaspettato.

Ho sempre pensato che nell’arte dare allo spettatore la cosa definita sia un po’ una morte.

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