Per parlare di poesia oggi è necessario intraprendere un percorso di riflessione sul poeta, sul suo e sul nostro sguardo rispetto a questa particolare pratica artistica. In un momento storico in cui spesso la realtà indurisce il nostro animo e il giorno decolora i nostri pensieri, ho incontrato due poeti della Provincia di Modena, Marco Bini e Mariadonata Villa, che mi hanno raccontato, anche attraverso un contributo davvero speciale, dello strettissimo rapporto che lega la poesia alla realtà.

Biografie

Marco Bini

Marco Bini vive a Vignola. Suoi testi sono apparsi nelle antologie “La generazione entrante” e “Post ‘900” e in diverse riviste cartacee e online come “Nuovi Argomenti”, “Poetarum Silva”, “Poesia del Nostro Tempo” e “Atelier”. Ha pubblicato le raccolte di poesie “Conoscenza del vento” nel 2011 e “Il cane di Tokyo” nel 2015. Traduce poeti di lingua inglese e collabora con il Poesia Festival delle Terre di Castelli.


Mariadonata Villa

Mariadonata Villa vive a Modena, dove insegna in una scuola primaria. Il suo libro d’esordio L’assedio è stato finalista al premio Carducci nel 2013. Scrive e traduce di poesia e arte per riviste e siti come clanDestino, Atelier, versodove, o graphie, oltre che per quotidiani locali e nazionali. Dal 2012 al 2016 ha fatto parte del Cda di Fondazione Fotografia (oggi FMAV – Fondazione Modena Arti Visive).
Nel 2019 il suo testo “A song for the wide nation” è diventato il titolo e lo script della video-installazione video di Stefano Cozzi alla Cittadella degli Archivi di Milano durante il MiArt.
Suoi testi sono nell’antologia “Davanti agli occhi c’è un ponte” a cura di Massimiliano Mandorlo, nell’Almanacco di Poesia Raffaelli, nell’annuario bilingue “La freccia e il cerchio” oltre che, in lingua inglese, in “Neke – The New Zealand Journal of Italian Studies” e nel magazine letterario online Solstice. Ha tradotto le raccolte di prosa “Lapsed Agnostic” di John Waters e “Dai luoghi profondi” di James Kilgo. Ha inoltre partecipato alla traduzione a più voci de “Sweeney – Smarrito” di Seamus Heaney, a cura di Marco Sonzogni. “Verso Fogland” è la sua seconda raccolta.


L’intervista

Gli occhi del poeta: come può la Poesia raccontare i drammi del nostro tempo?

Marco: La poesia parla dei drammi di ogni tempo e del “dramma” dell’essere umano, anche quando si presenta vestendo una maschera festosa o irriverente. Non esisterebbe l’esultanza senza lo scoramento e l’inquietudine. Una delle cose più complesse dello scrivere poesie è la risposta alla domanda: “di cosa parlano le tue?”. È pienamente legittima, ma non so mai dare una vera risposta se non che parlano dell’esperienza umana, dal mio punto di vista. Ti risparmio la faccia dei miei interlocutori le volte che l’ho detto per davvero!

In realtà le poesie possono passare attraverso i singoli accadimenti, testimoniare la storia e i suoi momenti specifici. Penso ai moltissimi poeti che hanno composto coi loro versi un intero libro parallelo di storia del Novecento: Ungaretti, Auden, Mandel’štam, Montale, Celan, Brodskij e tanti altri. Fino ai casi di poesia-cronaca, ad esempio come la faceva l’inglese Tony Harrison a metà anni ’90 pubblicando dalla Bosnia poesie in prima pagina sul quotidiano The Guardian. Ma la poesia in sé credo trascenda il singolo evento e parli da sempre della nostra finitezza, della nostra imperfezione, della nostra impossibilità a raggiungere le stelle. Quindi ho spesso l’impressione che ogni poeta racconti ogni tempo in una specie di gigantesca sincronia che si verifica solo in letteratura e nelle arti.

Mariadonata: La poesia dice del reale in un modo che perfora la cronaca e radica ciò che succede in un tempo e in uno spazio altro. Esiste un dato di necessità del racconto che permea per natura l’azione dell’artista, in ogni tempo e in ogni spazio. In momenti in cui ci si trova improvvisamente, come oggi, a una sterzata della storia, può accadere che l’arte in generale, e la parola in particolare, possano aiutare a chiarire lo sguardo, a pulire la retina dai sedimenti della cronaca.

Qualche tempo fa, sul suo blog Fotocrazia, Michele Smargiassi ha parlato, a proposito della funzione della fotografia, di manutenzione dello sguardo: si potrebbe dire che la poesia ha una funzione di cura della parola, di ricerca di una parola che più sappia approssimarsi all’esperienza della gente. Penso a Ungaretti che scrive della trincea durante la Prima Guerra Mondiale, o a Darwish sulla questione palestinese, alla grande poesia polacca e irlandese del Novecento, figlia della privazione della libertà, o ai tanti poeti della nuova diaspora dei rifugiati, oggi. Per restare al nostro secolo, penso alla Szymborska, che in “Fotografia dell’11 settembre” racconta, lasciandolo sospeso nell’aria come a un’ultima salvezza, l’uomo che cade; trovo che dica molto della storia, e anche della poesia.

Come può la Poesia aiutarci in un momento come quello che stiamo vivendo?

Marco: Mi gioco la citazione rinominando Brodskij: “La poesia è la miglior scuola di insicurezza che ci sia”. Quindi non può aiutarci dandoci delle soluzioni, che d’altronde non le competono. I problemi materiali di questo passaggio richiedono altre capacità, così come le scorie mentali che la pandemia, l’isolamento e il ridimensionamento economico ci lasceranno.

Non ho mai creduto davvero nel fatto che la poesia salverà il mondo, o che si possa essere salvati da una poesia: una cosa così la si può dire solo senza aver mai sperimentato un corpo a corpo con la poesia, dal quale si esce sempre con le ossa rotte. Altro che salvezza! Credo però che la poesia possa cambiare gli sguardi, ed è un effetto più sottile ma ugualmente potente. Questo perché la nostra esperienza del mondo è fatta di parole tanto quanto è fatto di pietra, acqua, terra, aria, corpo: l’impatto che possono avere certe parole sulle menti pronte ad ascoltare può equivalere a una piccola insurrezione che si gioca tutta nella testa, ma cambia segno alla vita. I bravi poeti fanno questo: cambiano il modo in cui guardiamo alle cose mostrandocene il rovescio, uno scorcio che non abbiamo mai visto, suggerendoci i segreti che possono nascondere e sprigionare. È sempre un passaggio complesso, e non è mai liberatorio, anzi, spesso porta guai se non dolori – ecco perché non amo l’idea della poesia che salva.

Scusa la digressione, ma per darti una risposta secca: non ci aiuta perché non ci salva e non ci cura. Ma, come una preghiera, cambia in meglio la nostra esperienza della vita e ci mette in comunicazione con qualcosa che sta sotto la superficie. Io non saprei pensare alla vita senza le parole dei poeti che amo.

Mariadonata: Per rispondere a questa domanda parto da un pezzo a me molto caro, la prefazione che Anna Achmatova scrive al suo Requiem, riferendosi al periodo terribile in cui andava a portare pacchi al figlio chiuso in prigione. Se il pacco veniva rifiutato, significava che la persona a cui era destinato era morta.

Nei terribili anni della “ezovscina” ho trascorso diciassette mesi a fare la coda presso le carceri di Leningrado. Una volta un tale mi “riconobbe”. Allora una donna dalle labbra bluastre che stava dietro di me, e che, certamente, non aveva mai udito il mio nome, si ridestò dal torpore proprio a noi tutti e mi domandò all’orecchio (lì tutti parlavano sussurrando): – Ma lei può descrivere questo? E io dissi: – Posso. Allora una specie di sorriso scivolò per quello che una volta era stato il suo volto. 

I aprile 1957. Leningrado

In qualche modo, quando la storia ci atterrisce, ci si rivolge ai poeti. Ci si ricorda di rivolgersi a loro, anche se non si sa il loro nome. Perché c’è la percezione, magari anche confusa, di non essere dimenticati, di non scivolare via, di poter sorridere anche davanti ai cancri della storia. Devo dire che di alcuni testi che girano in questi giorni, anche di poeti che amo e stimo, apprezzo il tentativo di essere vicini alla gente, più che la qualità poetica. A volte il rischio è far prevalere l’emozione e depotenziare le parole. Ma per i tempi duri ci vogliono parole che reggano l’urto nel lungo periodo, che siano accessibili, sì, ma anche verticali, mentre ho letto tanta orizzontalità. Mi interroga però il fatto che siano state lette e ripostate da così tante persone, perché evidentemente questo fatto dice di un bisogno forte che c’è. Ultimamente, penso ci sia il bisogno di avere parole per dire ed essere detti, di avere strumenti per leggere il reale, anche quando il reale siamo noi stessi.

Cosa ne pensate della battuta del film Il Postino “La poesia non è di chi la scrive, ma di chi se ne serve”?

Marco: La ricordo anche perché a volte nei film la poesia non fa una bella fine e diventa miele, retorica o decoro. Questa frase invece è semplice e centrata. Aggiungerei solo che la poesia è anche “di chi la prende con sé” senza farci qualcosa in particolare. In effetti, dopo che l’hai mandata per il mondo, una poesia che hai scritto è come una barchetta di carta lasciata alla deriva: l’hai fatta tu, e questo non può togliertelo nessuno, ma chissà dove andrà, chi la raccoglierà e cosa, appunto, ne farà.

È sempre sorprendente per me avere dei riscontri da parte di chi ha letto qualcosa di mio, a volte persone sconosciute che sbucano dal nulla con un messaggio sui social. Provo una forma di contentezza alla quale non so dare nome, che viene dalla consapevolezza di essere entrato in un contatto profondo, anche se breve, con qualcun altro, in un modo che nessun altro interscambio umano è in grado di fare. Spero che quelle mie poesie siano servite a spostare anche solo di un millimetro il punto di vista di qualcuno. Se così fosse, avrei combinato qualcosa di buono.

Mariadonata: Sono assolutamente d’accordo; una volta che un testo è al mondo, è indipendente da chi l’ha scritto. C’è questo salto nel vuoto che fa parte del gioco e anche della bellezza della vita. Sono d’accordo, ma a patto che davvero ce ne si serva e non la si usi. Il rischio di cui parlavo sopra è che la si usi per dire di sé, piuttosto che porgerla agli altri, piuttosto che accettare la sua estraneità ultima anche alla mano di chi l’ha scritta. Sembra una distinzione sterile, ma non è così. La poesia è uno strumento ferreo, ma anche fragile; non sopporta tradimenti.

Aggiungo anche un pensiero che si collega alla domanda precedente. La poesia non deve servire a tappare i buchi, ma ad aprire. L’impressione di iniziative che si moltiplicano in rete è l’ansia di tappare un vuoto senza prima guardarci dentro. In questo tempo, se non possiamo aprire all’altro la porta di casa, possiamo però aprirci a una visione nuova del mondo, e a uno spazio di silenzio necessario in tutto questo brusio.

Avete un poeta o delle letture che vorreste suggerire e che possiamo riscoprire in questo periodo di quarantena?

Marco: Per ragioni convergenti di importanza e attualità, scelgo Mario Benedetti. Friulano d’origine (da non confondere con l’omonimo poeta uruguaiano), è venuto a mancare il 27 marzo scorso, dopo essere stato colpito alcuni anni fa da un grave problema di salute ripresosi dal quale non ha più scritto. Ciononostante, è stato uno dei poeti italiani più importanti degli ultimi decenni, uno dei pochi “grandi” che rimarranno di questo primo scorcio di anni Duemila. La sua voce è molto profonda, le sue poesie hanno un fondo oscuro e vanno lette con lentezza, una, due, tre volte. Si spalancano pagine di grande intensità in oscillazione perpetua tra favola e storia, dove l’esperienza delle cose, anche le più piccole, è fondamento di conoscenza espresso in una lingua piana, tutt’altro che piatta, ma capace di spiazzare e sfidare a ogni verso: Penso a come dire questa fragilità che è guardarti, / stare insieme a cose come bottoni o spille, / come le tue dita, i tuoi capelli lunghi marrone. / Ma d’aria siamo quasi, in tutte le stanze / dove ci fermiamo davanti a noi un momento / con la paura che ci ha assottigliati in un sorriso, / dopo la paura in ogni mano, o braccio, passo, / che ogni mano, o braccio, passo, non ci siano.

Mariadonata: Suggerirei di leggere Pierluigi Cappello, un poeta che con parole povere, direbbe lui, riesce poi a impennare lo sguardo, la visione. Un poeta accessibile e al tempo stesso verticale, che sa parlare di un mondo in cui ci sono ombre e c’è la morte, ma senza mai dimenticarsi della luce. Partite da Parole povere, che è facilmente rintracciabile anche in rete. Mi sembra una poesia che parli all’oggi molto più di tanta instant poetry.

Avete voglia di condividere con noi una vostra poesia?

Marco: Certo, ti propongo un testo inedito che ha a che fare con la mia città, con il tempo, con quello e con quelli che non ci sono più.

Mancano all’appello frasi ricorrenti, facce
dense e ferme, modi di portare il cappello,
motivi da fischiare che ricamavano l’aria
zufolando sotto le volte dei portici: intonaco

e malta in un posto di provincia, spariti
come in un arresto all’alba senza testimoni.
È finito lo spazio per i morti: nessuno lo dice,
ma se taci senti tutto quello che succede.

Ad esempio il disabitarsi delle case che sognavi,
lo scivolare delle pietre tra corso e castello.
Loro non ci sono: staranno nel fuorigioco abissale
avanti e indietro lungo i capillari di Vignola

Vecchia senza rispecchiarsi in nessuno e niente,
al largo da una lingua solo buccia e imitazione.
O disposti nella veglia sul fiume pronti al volo
come tortore sui fili sul finire della stagione.

 

Mariadonata: Questo testo viene dalla seconda sezione del mio nuovo libro, Verso Fogland

Calling birds by name

È grande il freddo che ci chiama.
Ci sono uccelli dalla testa bianca
grandi quanto la mano che tendi
quando chiedi riparo od offri doni.

Non c’è scampo alla vita che hai deciso.
Ascolti in fretta, e interrompi il passo
per prestare l’orecchio, da quella soglia
di cemento del tempo che chiamiamo città.

Ieri dal cielo che minacciava neve
è scesa una piuma minuscola, della stessa
natura dei fiocchi di cristallo
che Cartesio disegnò sul suo trattato.

So bene che non era un angelo
ma un piccione che passava basso,
radente al gelo. Però ho alzato
la testa lo stesso, per cogliere il battito –
per sapere se era carne, o solo nebbia
quella danza minuscola che mi sovrastava.

Ed il sacro si mostrò.
Ed era terribile a vedersi.