La Giornata mondiale contro l’AIDS, indetta ogni anno il 1º dicembre, è dedicata ad accrescere la coscienza dell’epidemia mondiale di AIDS dovuta alla diffusione del virus HIV. Dal 1981 l’AIDS ha ucciso oltre 25 milioni di persone, diventando una delle epidemie più distruttive che la storia ricordi. Per quanto in tempi recenti l’accesso alle terapie e ai farmaci antiretrovirali sia migliorato in molte regioni del mondo, l’epidemia di AIDS ha mietuto circa 3,1 milioni di vittime nel corso del 2005 (le stime si situano tra 2,9 e 3,3 milioni), oltre la metà delle quali (570.000) erano bambini.

Attraverso la mostra Dilettanti Geniali – Sperimentazioni Artistiche degli anni Ottanta, al Padiglione de l’Esprit Nouveau di Bologna fino al 5 gennaio 2020, abbiamo conosciuto la rivista Frigidaire, a cui abbiamo dedicato un MoCu Speaks che potete ripercorrere in questo articolo. Tra le meravigliose cose esposte, al piano terra, si trova anche il numero 27 di questa rivista, pubblicato nel febbraio 1983, aperto a pagina 84 dove è possibile leggere la prima pagina dell’articolo dal titolo Cancer Gay, scritto da Paolo Brogi. In occasione di questa giornata, grazie alla collaborazione degli organizzatori della mostra e di Vincenzo Sparagna, oggi su MoCu trovate la versione integrale del primo articolo dedicato al tema dell’Aids pubblicato in Italia. Pensiamo che rileggere queste parole dopo 36 anni possa ancora sollevare profonde e attuali riflessioni, nonostante siano passati molti anni e, fortunatamente, la medicina e la società abbiano compiuto passi da gigante nei confronti di questa malattia che ha inginocchiato il mondo intero.

Questo vuole essere solo un nostro piccolo gesto per provare a tenere viva e accesa la discussione intorno a un tema che, silenziosamente, attraversa ancora la nostra quotidianità.

Cancer Gay, di Paolo Borgi. Pagina di apertura dell’articolo sulla rivista Frigidaire n. 27

 

Per un anno non succede niente, poi sulla pelle cominciano ad apparire delle placche porporine. Non è tutto: al sarcoma sull’epidermide si affianca un parassita che divora i polmoni. E il corpo non reagisce, perché sembra aver perduto ogni possibilità di difesa immunitaria. Gli americani la hanno chiamata Aids (aquired immune deficiency sindrome) ed è un flagello che sta seminando morti da un capo all’altro del continente. Rilevata per la prima volta in un gruppo di omosessuali di Los Angeles, la Aids è stata frettolosamente battezzata Cancer gay, ma è una cosa molto più seria di un’infezione sessuale per soli gay. In realtà nel giro di qualche mese il Cancer gay è stato scoperto ad Haiti e poi è ap­prodato in Europa. Oggi si sa che può colpire tutti: omosessuali, etero, donne, bambini, emofiliaci, tossicodipendenti, detenuti.

E in Italia nessuno è in grado di controllarla.

Atlanta, Georgia
Giugno 1981. Ad Atlanta, in Georgia, sul tavolo del dr. James W. Curran, di professione epidemiologo, sono sparsi alcuni rapporti provenienti da varie parti del paese. Ad attirare la sua attenzione sono alcuni fascicoli provenienti da New York e Los Angeles.
L’equipe del dr. Gottlieb, di Los Angeles, segnala cinque casi di Pneumocystis carinii, un parassita polmonare, insediati in pazienti che presentano gravi alterazioni dell’equilibrio immunitario. I malati sono tutti omosessuali. Ci sono dei decessi.
Dalla sponda opposta del paese un’altra equipe diretta da Alvin Friedman-Kien fa sapere che a New York altri 26 omosessuali sono stati colpiti dal sarcoma di Kaposi, un tumore che nella norma colpisce 2 persone su tre milioni. Inoltre, contrariamente alla casistica normale, il morbo ha un decorso accelleratissimo. Anche in questo caso è presente una disfunzione immunitaria che ha favorito il successivo insorgere di infezioni opportunistiche in cinque pazienti, di Pneumocystis c. in altri quattro e del toxoplasma in un altro. Dato che si aggiunge al rebus: la maggioranza ha in comune un’infezione passata o presente da Cytomegalovirus (CMV). La lista dei morti si allunga ulteriormente.
Sempre dall’area newyorkese affluiscono i rapporti del New York Medicai Center, del Downstate Medical Center di Brooklyn, dell’ospedale Mount Sinai, del Department of Hematology: altri omosessuali sono stati colpiti dal sarcoma di Kaposi. I dati clinici citano varie malattie veneree di trasmissione e l’inquietante presenza del CMV. Ma arrivato al rapporto del dr. Kenneth Hymes l’epidemiologo di Atlanta fa un sobbalzo: quattro dei suoi otto pazienti, curati tra il marzo del 1979 e il marzo del 1981, sono morti. Causa: il sarcoma di Kaposi. Per la terza volta la parola morte emerge da un rapporto: stavolta, però, con una incidenza del 50%. Spulciando ancora, il primo consuntivo è fatto: su 41 casi segnalati, i morti ammontano ormai a un terzo. Una cifra inspiegabilmente troppo alta. Il tam-tam del Center for Disease Control (CDC), l’osservatorio nazionale americano sulla salute comincia a suonare.
Il CDC è entrato in fermento e la stanza di Curran si riempie in breve tempo di altri epidemiologi. Si Passano in rassegna le osservazioni cliniche. L’equipe del dr. Hymes scrive che, contrariamente alla norma, il Kaposi, rarissimo negli Usa dove l’incidenza annuale era dello 0,02 su 100.000 persone (92 persone tra il 1945 e il 1979, cioè meno di 3 all’anno), non ha colpito persone anziane come nel passato. È un abbassamento dell’età che emerge anche dalle altre relazioni scientifiche.

Il fattore K

La malattia non è delle più note. Per gli epidemiologi è una vera novità. Si cerca di fare il punto. Il sarcoma di Kaposi è molto raro, co­me abbiamo visto, sia negli Usa che in Europa. Per bersaglio sceglie persone oltre i 50 anni, in genere uomini, con un rapporto uomini-donne di 15 a 1. Descritto per la prima volta nel 1872, è un neoplasma multifocolare di ele­menti mesenchimali con preminenti strutture vascolari. In altri termini placche rossastre più o meno scure che spuntano sulla pelle, segui­te da noduli. Il tutto sulle estremità inferiori, anche se a volte vengono coinvolti gli arti su­periori e altre parti del corpo.
La lentezza della malattia è tale per cui i pazienti riescono a sopravvivere oltre dieci-quin­dici anni. A volte, specie negli ammalati più anziani, il Kaposi è preceduto o accompagna­to da un altro linfoma maligno. Benché siano abbastanza comuni, le complicazioni viscerali sono rilevate molto spesso solo a decesso av­venuto.
Tutte notizie che fanno a cazzotti con i dati posseduti dai ricercatori del CDC. Se c’è un punto di riferimento, pensano in quel momen­to ad Atlanta, è la situazione ugandese. Lì in­fatti c’è il principale focolaio della malattia che raggiunge un’incidenza del 9% tra tutti i neoplasmi maligni. Inoltre, ad essere colpiti sono molto spesso i giovani negri e una picco­la percentuale riguarda perfino i ragazzi sotto i 15 anni. Inoltre, il morbo ha un processo più violento, proprio come tra gli omosessuali americani: infatti il neoplasma si presenta con lesioni e linfonodi che colpiscono tutto il cor­po, coinvolgendo intestini, polmoni, pleura, fegato e milza. L’esito, infine, è rapidamente fatale, spesso solo dopo 3 anni dalla compar­sa del male.
Già, ma che c’entra una sperduta zona del terzo mondo con le metropoli americane e le comunità gay? E poi si trattasse soltanto del Kaposi! Qui si aggiunge di tutto un po’, e so­prattutto questa incredibile caduta delle dife­se immunitarie. Qualcuno allora si ricorda che il Kaposi ha ricominciato a fare capolino con i trapianti del rene e con le somministrazioni di farmaci corticosteroidi o citotossici che han­no determinato squilibri immunitari. Casi che hanno spiegazioni evidenti. Ma chi ha depres­so l’immunità dei nuovi colpiti?

Allarme

Si torna ad immergersi nella lettura del rap­porto Hymes. Gli otto pazienti avevano avuto molteplici rapporti sessuali con più partner e si sono beccati varie malattie trasmesse sessualmente, sifilide, gonorrea, amoebiasis, epatite virale, herpes progenitalis, condiloma acuminatum (escrescenze che si formano nello sfintere). È presente insomma tutto il caravanserraglio delle malattie veneree. Sette si erano presentati per lesioni sulla pelle, l’ottavo per una polmonite causata dallo Pneumocystis c. Alla prima visita anche a lui però erano state scoperte le fatali lesioni del Kaposi. Le lesioni consistevano in pustole e noduli. In un caso, in placche. Alcune lesioni misuravano parecchi centimetri di diametro ed erano localizzate sulla testa e sul collo. In nessun caso erano coinvolte le estremità inferiori. Nonostante la chemioterapia, quattro pazienti erano morti. Infine, il dato più preoccupante: la fascia di sopravvivenza si era ristretta a un minimo di 3 e un massimo di 20 mesi. La media si era dunque ridotta a soli 15 mesi. Per gli epidemiologi di Atlanta era arrivato il momento di passare all’azione.
Viene formata una task force sotto la direzione di Curran. Trenta epidemiologi mettono in piedi una rete di raccolta dati che riguarda inizialmente le dieci città più importanti degli Usa. In seguito, verrà allargata ulteriormente. Al Center for Disease Control cominciano ad affluire dati in quantità. Man mano si estende lo spettro d’incidenza del nuovo flagello: dopo New York, Los Angeles e ovviamente San Francisco, caposaldo delle comunità gay americane, l’Aids sta propagandosi in giro per buona parte del paese. E sempre più frequenti sono gli intrecci di Kaposi, Pneumocystis, CMV.
Particolari preoccupazioni sono date dall’aumento del parassita polmonare. Il Pneumocystis carinii è un’infezione protozoica degli spazi alveolari dei polmoni. È stata individuata per la prima volta nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Colpiva i bambini, soprattutto i neonati dai 2 ai 3 mesi di vita quando le loro capacità immunitarie non sono ancora sviluppate a pieno. La mortalità, nei casi di intervento tradivo, era molto alta: tra il 20 e il 50% dei casi. In anni più recenti questo tipo di polmonite ha riguardato quasi esclusivamente quei pazienti a cui sono stati somministrati farmaci immunodepressivi per la cura del cancro o per i trapianti renali. Ovviamente ne sono colpiti anche i neonati che presentano deficienze immunitarie congenite. Ma, ancora una volta, ad Atlanta ci si è chiesti che c’entra tutto ciò con gli omosessuali e l’Aids.
Il caso è sempre più complicato. La comunità gay è estremamente allarmata da questa epidemia che sta colpendo a man bassa tra le sue file. Epidemia in cui si mischia un cocktail esplosivo di tumori, infezioni polmonari, ascessi celebrali, tbc, virus di varie specie, il tutto condito da un deficit immunitario di origine ignota.

Quota 827

Luglio 1982. È passato oltre un anno dall’avvio dell’indagine del CDC. A New York, nel corso di un convegno organizzato per fare il punto sul nuovo flagello, i responsabili di Atlanta forniscono le cifre che il mondo ha ignorato fino a quel momento. I casi di Aids sono 471, riguardano 21 stati americani e 8 paesi stranieri. Su questo totale, 143 persone sono state colpite dal sarcoma di Kaposi e 292 sono morti di infezioni multiple, perlopiù per polmonite interstiziale causata dal Pneumocystis. La media dei morti, sul totale dei colpiti, ha superato dunque il 60%. La maggioranza sono omosessuali ma, fatto nuovo, ci sono anche 27 donne – 11 di loro sono morte – e 60 casi riguardano eterosessuali. Esiste pertanto un 20% dei colpiti che non è affatto gay. L’Aids non è più un triste appannaggio dei soli omosessuali.
Un mese più tardi il New York Times dà la notizia che gli stati americani toccati dall’Aids sono diventati 27. Alla lista dei colpiti si aggiungono emofiliaci e tossicodipendenti da eroina. Infine, compaiono gli haitiani: 34 nuovi casi, tutti originari di Haiti o di recente immigrazione negli Usa. 16 di loro muoiono. Con la nuova presenza del focolaio caraibico il quadro si complica ulteriormente.
Alla fine del 1982 il CDC comunica gli ultimi rilevamenti: i casi sono 827, i decessi 312. Il tasso di morte è sceso al 38%, ma non per particolari progressi medici, e in ogni caso è di gran lunga superiore alle ultime epidemie moderne come la “malattia del legionario” scoperta nel 1976 a Philadelphia. Il dr. Henry Masur, del National Institute of Health, fa osservare che la fascia massima di sopravvivenza si è comunque ridotta a 18 mesi.
Poco prima di Natale si aggiunge un ulteriore segnale di allarme: il CDC ha scoperto 22 bambini colpiti dall’Aids. Il caso più drammatico riguarda a San Francisco un bambino di 20 mesi colpito da un’infezione di mycobatteri tipica dell’Aids. Nei primi giorni di vita era stato sottoposto a parecchie trasfusioni di sangue a causa di complicazioni legate al fattore RH. Il pericolo può venir dunque anche dai donatori. E gli altri casi? Per il dr. Polly Thomas, responsabile del CDC a New York, i bambini potrebbero essere affetti da una malattia congenita molto rara che presenta affinità con l’Aids: la sindrome di Nezelof. Per il responsabile del Medicai Center di Newark, che ha avuto a che fare con alcuni di questi bambini, si tratterebbe invece di Aids trasmesso attraverso la placenta durante la vita fetale o nel successivo contatto con la madre. L’ipotesi si basa sul fatto che i bambini provengono da famiglie considerate ad “alto rischio”: attività omosessuali, abuso di droghe, origine haitiana.
A omosessuali, donne ed eterosessuali si aggiungono ora anche i bambini: il puzzle è praticamente completo. Per il dr. J.W. Curran è il momento di affermare un’amara verità: Siamo in presenza della prima epidemia d’immunologia della storia.

Dagli all’helper!

La dottoressa Isabella Quinti è un’immunologa romana molto indaffarata ad organizzare il VII corso di aggiornamento di allergologia o immunologia che si tiene presso la Clinica dermatologica dell’università di Roma. Per un momento speriamo di trovare sul programma dei lavori qualcosa sull’Aids. Lasciamo perdere…
Strappiamo la Quinti ai suoi affanni e cl facciamo spiegare in che cosa consiste questo problema immunitario. “Il meccanismo funziona per mezzo di cellule helper (Induttori) e cellule suppressor”, ci dice. “Normalmente il rapporto è di due a uno. Tutte le volte che si squilibra si forma uno stato di disireattività. Può succedere allora che aumentino le suppressor con conseguente paralisi delle difese. Capito?”.
Le immunodeficienze note sono quelle ereditarie oppure quelle derivanti da farmaci immunodepressivi come nei casi ricordati dei trapianti. Fuori di questi casi molto precisi, continua l’immunologa, sappiamo che l’organismo è posto sotto la vigilanza del sistema immunitario di difesa. È una barriera di protezione contro i virus, i batteri, i parassiti, i funghi ecc. Di regola l’organismo sano ospita vari germi e virus che sono strettamente controllati e limitati. Questi germi “ubiquitari” sono dunque normalmente in ciascuno di noi. E in caso contrario? Siamo nei guai, come con l’Aids, dice la Quinti. È il via libera per gli agenti opportunisti, i parassiti come il Pneumocystis, il Cryptosporium (nell’apparato digerente), il toxoplasma che provoca ascessi cerebrali. Oppure per funghi come il Cyptococosi (sistema delle neuromeningi) o la classica Candida. E poi per batteri, come il bacillo di Koch (tbc), virus come gli herpes e il CMV, i tumori come il Linfoma di Burkitt e il sarcoma di Kaposi.
Atterriti da questa pioggia di disgrazie, chiediamo qualcosa sulle trasfusioni. Sono pericolose? “Può capitare. Prendiamo il caso del Papa. Con una trasfusione si prese l’infezione del CMV. E anche in quel caso, come in genere con i virus, si era determinata una depressione immunitaria”. Beh, questo rapporto Papa-CMV ci era proprio sfuggito. E pensare che si tratta di un’infezione comune tra i gay.

Poppers, no grazie

“Non potete avere idea di come viva oggi un gay in questa città”, ha dichiarato recentemente Larry Kramer, uno dei fondatori del Gay Men’s Health Crisis di New York. “È come vivere a Londra durante i bombardamenti quando non si poteva sapere se la prossima bomba sarebbe toccata a te oppure no”. Nel gran marasma di ipotesi sulle cause dell’epidemia, dal mondo gay è uscita perfino la denuncia di un micidiale complotto orchestrato nei loro confronti. Infatti, quando le autorità mediche hanno acceso i riflettori sul poppers, una droga molto diffusa tra gli omosessuali americani, si è parlato di una adulterazione del prodotto ad opera della CIA. Dal CDC hanno risposto che era “un’ipotesi da abbandonare”. Nessuno tossico risulta presente nel nitrito d’amile che è alla base del poppers.
Ma perché era stato chiamato in causa il poppers? Perché la maggioranza dei colpiti ha dichiarato di averne fatto uso. Il nome l’ha preso dal rumore che fa quando si preme la capsula che contiene nitrito d’amile. Si tratta di una sostanza volatile usata in medicina per la cura dell’angina pectoris (una malattia del cuore). Il nitrito d’amile è un liquido giallo chiaro confezionato in ampolle, flaconcini e capsulette. Se ne aspirano i vapori. Alcuni secondi dopo l’inalazione si produce una dilatazione dei vasi sanguigni. L’effetto dura per due/tre minuti. In questo lasso di tempo il consumatore ha una sensazione di rilassatezza. Inizialmente apprezzato dagli omosessuali, viene usato soprattutto durante i rapporti sessuali. Inalandolo appena prima dell’orgasmo sembra che intensifichi le percezioni. Il poppers provoca anche un rilassamento dei muscoli involontari. Il suo uso si è diffuso in questi ultimi anni anche fuori della comunità gay. Per esempio, è approdato nelle discoteche insieme alla (detestabile secondo me) disco music. Tutto quello che si sapeva finora, in caso di abuso, era che poteva procurare mal di testa, vampe di calore, nausee e a volte vomito. L’uso era comunque sconsigliato per le persone sofferenti di glaucoma o di ipotensione.
OK, i gay ne fanno uso e forse abuso, ma da qui all’Aids di strada ce ne corre. A tutt’oggi non c’è nessuna prova che confermi una responsabilità diretta del poppers. Semmai smentite

Intanto nella vecchia Europa…

Non hanno mai fatto uso del poppers. E non hanno mai visitato gli USA o avuto partner americani. Eppure, due omosessuali francesi venivano ugualmente ricoverati alla clinica Tarnier dell’università di Parigi: addosso le caratteristiche lesioni del Kaposi. Lo comunicava nell’aprile dell’82 l’equipe dermatologica diretta dalla dottoressa Isabelle Gorin. Fino a quel momento le segnalazioni europee sembravano accreditare una diretta filiazione del focolaio statunitense. Già nel settembre ’81, dall’ospedale Hvidovre di Copenaghen, arrivava la notizia di due omosessuali danesi colpiti da Kaposi. Però soltanto uno dei due era stato a New York nell’estate dell’anno precedente e aveva avuto rapporti omosessuali. A dicembre veniva poi segnalata dal Brompton Hospital di Londra la morte di un altro omosessuale dopo appena 10 giorni di degenza: sarcoma di Kaposi, Pneumocystis, CMV. Era stato di recente a Miami dove ogni anno andava a far baldoria con un gruppo di amici omosessuali. Più contraddittori invece i dati emergenti dalla Spagna dove i dottori J. Vilaseca, J. Arnau e R. Bacardi riferivano di casi di omosessuali in rapporto con gay americani e di altri casi privi di analoghi fili conduttori.
Una nuova pista affiorava intanto in Francia, dove il Kaposi aveva colpito stavolta un eterosessuale. Scavando nei suoi movimenti, veniva rintracciato un soggiorno ad Haiti nel corso del quale, in seguito ad un incidente stradale, era stato sottoposto a una trasfusione di sangue. Il poppers cede allora il passo ad Haiti. Dà Port-au-Prince un dermatologo conferma nell’agosto 11 nuovi casi di Kaposi. Al CDC si avanza allora l’ipotesi che il Kaposi sia endemico nell’isola, un po’ come nei casi ugandese e congolese. Il dr. Friedman-Kien s’incarica d’individuare la connsessione. Semplice: “Haiti e i paesi dei Caraibi sono luoghi di vacanza molto popolari presso gli omosessuali americani”. Peccato però che ad Haiti non esista nessun osservatorio epidemiologico degno di fede. L’ipotesi rimane e altri casi francesi – attualmente arrivati a 22 – sembrerebbero confermare la pista haitiana: 2 donne sono haitiane, un uomo è sposato con un’haitiana, 11 sono omossessuali. Ma che dire dei rimanenti per i quali non vale nessuna delle piste indicate: non sono omosessuali, non sono stati negli USA o ad Haiti, non inalano poppers, eppure si sono beccati la stessa immunodeficienza con relativo tumore. E che dire dell’allargamento delle categorie interessate negli USA: omofiliaci, tossicodipendenti, detenuti non omosessuali, donne, bambini non geneticamente immunodeficienti? 

Alla ricerca della colpa

“È colpa dello sperma!”, scrive un medico a Lancet, rivista medica internazionale. Infatti, pare che lo sperma possa giocare, anche se minimamente, un suo piccolo ruolo guastatore. Ottiene un coro di “scemo!’’.
“Assurdità”, dice l’epidemiologo francese Rosenbaum, “idee di biologi deliranti che hanno proiettato i loro fantasmi”.
Da Bahia si scomoda il dr. Elsimar Coutinho che perde un’occasione per starsene zitto. Sono gli estrogeni, tuona il nostro. E I gay ne fanno uso. Gli risponde per le rime il londinese A.F. Mills: e allora come la mettiamo con milioni e milioni di donne che da anni prendono le pillole contraccettive? C’è un legame con la sifilide, suggeriscono da Copenaghen. È più probabile allora un cocktail di fattori di rischio come droghe (promiscuità sessuale e altre infezioni, rispondono a New York. Un gruppo di medici del Medical Center della New York University e del Department of Medicine della Columbia University, coordinati da Michael Marmor, decide di fare un’inchiesta approfondita su un campione di 20 omosessuali colpiti dal Kaposi. Che cosa scoprono? Agli ammalati non è stata diagnosticata in precedenza nessuna forma di tumore. Nessuno di loro propone particolari eccessi nell’uso del tabacco e dell’alcool. Più variegato il panorama delle droghe usate. Le percentuali (con 100% = 20) sono: butyl nitrite 55%, ethyl chloride 55%, phenciclidina (cioè il PCP, l’angel dust) 55%, metaqualone 70%, anfetamine 80%, cocaina 90%, marijuana 95%, poppers 100%. Da notare comunque che uno dei pazienti aveva sniffato il poppers per una sola volta oltre tre anni prima. Un’altra tabella fa la conta delle malattie veneree: infezione della Giardia lamblia 25%, mononucleosi 30%, herpes simplex 30%, condyloma acuminatum 55%, sifilide 60%, epatite virale 65%, amoebiasis 70%, gonorrea 85%. Ultimo dato: la frequenza dell’attività sessuale. Il 50% dei pazienti ha avuto 10 o più partner diversi al mese nell’anno precedente l’inizio della malattia. Il record appartiene a un esuberante con 90 partner diversi al mese.
Conclusione dei medici che hanno condotto l’indagine: “L’uso del nitrito di amile e la promiscuità sessuale sono associati allo sviluppo del sarcoma di Kaposi, insieme alle mononucleosi e alle malattie trasmesse sessualmente’’. Interessante, non c’è che dire, ma che passi avanti si sono fatti in questo modo?

CMV?

Non molti, se c’è chi infine punta l’indice sull’ultimo protagonista di quest’enigma a fosche tinte: il Cytomegalovirus, CMV per gli addetti ai lavori. Ne sembrano convinti W.L. Drew e i suoi assistenti newyorkesi: dai loro esami risulta un’incidenza di questa infezione tra i giovani omosessuali pari al 93%. Si tratta di un campione che non è generalizzabile, ma il dato è impressionante. È però il CMV a creare immunodeficienza o viceversa? La risposta non c’è. Il CMV comunque compare quasi sempre nelle cellule attaccate dal Kaposi. Ma obietta il francese Rosenbaum: “Che in una cellula tumorale un virus trovi modo di esprimersi è normale. Ma da II ad affermare che il CMV sia l’agente patogeno è una conclusione prematura”. Un fatto è certo: il CMV piove sul bagnato. Quando è virulento provoca perturbazioni immunitarie che comportano una riduzione delle cellule helper.
In attesa di risolvere questo problema, che sembra quello dell’uovo e della gallina, le cure procedono alla cieca con scarsissimi risultati. In generale si usano l’ormone timico e l’interferon, un induttore d’immunità. Per il Kaposi si somministrano i farmaci antitumorali convenzionali, come quelli citostatici che dovrebbero bloccare le metastasi, la chemioterapia, la doxorubicina, la bleonycina, il decarbazine. Per il Pneumocystis la pentamidina, il trimethoprim, il sulfamatoxazolo. Per il CMV l’acycloguanosina. Tanti nomi, ma poi molto spesso il rapporto conclude che il paziente è morto. Per di più a volte i trattamenti sono come quel cane che si morde la coda: può infatti succedere che il farmaco crei un’ulteriore depressione del sistema immunitario. E intanto il puzzle patologico aumenta di nuovi pezzi e si sparpaglia per il mondo, di là e di qua dell’Atlantico. Si riuscirà a ricostituirlo in tempo?
Per il dr. Curran “potranno sorgere molti nuovi casi, da una parte perché i medici sanno ora quali test e quali sintomi sono necessari per arrivare alla diagnosi dell’Aids e, dall’altra, perché l’opinione pubblica è avvertita”. Secondo questo pronostico nel 1983 rischiano di morire parecchie altre persone visto che finora nessuno sa come curare questa nuova sciagurata malattia dell’era moderna.

L’Italia come sta?

Spagna, Inghilterra, Danimarca, Francia, … e l’Italia?
“Pronto, ministero della sanità? Ci sono casi di Aids da noi?”
Vengo subito dirottato su l’Istituto Superiore della Sanità. “Il controllo epidemiologico lo svolgono loro. Provi con II Centro di diffusione epidemiologica”. Per esistere esiste, ma sulla sua capacità operativa si nutrono tutti i dubbi del caso. Stavolta mi passano il prof. Renato Greco che lo dirige. Non mi sorprendo che la risposta alla mia domanda registri un secco no, subito addolcito però da un “perlomeno per quanto ci risulta a tutt’oggi secondo le segnalazioni che ci pervengono”. Ammettiamo che sia cosi: ma voi che cosa avete intenzione di fare? “Abbiamo deciso di avviare un’indagine, d’inviare formulari… inoltre ci manteniamo In contatto con II CDC americano, con il prof. Levi In California, con l’osservatorio inglese…”.
Ma come faranno, c’è da chiedersi, se In Italia non riescono a controllare neppure l’epatite virale? C’è una legge che prevede che tutte le malattie infettive siano denunciate. Il ministero dovrebbe raccogliere i dati, idem per l’Istat, e l’Istituto della sanità dovrebbe operare il controllo. Non resta che provare con l’Istat. Avranno perlomeno la rilevazione dei decessi. Macché! Per cominciare i dati ultimi, ancora da pubblicare, riguardano l’anno di grazia 1978. Come mai? Perché i comuni mandano schede sbagliate. Quante, chiediamo? 12.000 su mezzo milione di morti all’anno. Chiedo del sarcoma di Kaposi: quanti morti? Sono spiacenti ma hanno soltanto il dato dei morti per tumori del tessuto connettivo. Se ci sono stati casi di Kaposi dovrebbero stare li dentro: 138 nel 1977 e 120 nel 1978. Sempre più scoraggiato, mi sento via via rispondere che le cisti del polmone rientrano nella più ampia catalogazione degli enfisemi, il CMV nelle infezioni virali, il Pneumocystis nelle polmoniti interstiziali acute. Mi rimane un solo morto per herpes nel 1977. Dal triangolo delle Bermuda ministero – Istituto della sanità Istat – è tutto.
Telefono allora a un dermatologo che mi chiede di promettergli l’anonimato. Accontentiamolo pure anche se è un’esigenza strana. Il tipo non si meraviglia degli scarsi risultati della mia inchiesta, in sé comunque già un risultato. “In Italia non si denuncia neppure l’Influenza”, mi dice. “Si sa semplicemente che arriva e poi nessuno ne sa più niente”. Però, a parte le battute, un’informazione ce l’ha da darmela: ha sentito che di recente è morto un omosessuale di endocardite acuta. E allora? Anche una delle 312 vittime americane dell’Aids è morta cosi. Ma questo omosessuale dove è morto? E chi lo sa? Che pretendete, siamo in Italia…

Per ora un po’ di squilibrio

Copre il Lazio e diverse regioni del centro-sud: è l’ospedale dermatologico San Gallicano di Roma.
Il dr. Fazio sa dell’Aids, ma non ha riscontrato nessun caso. E al San Gallicano non si registrano neppure decessi sospetti.

“Stiamo richiamando per controllo tutti i nostri vecchi ammalati di Kaposi. Sono un numero molto ristretto e non credo abbiano nulla a che vedere con la tipologia del nuovo Kaposi”.

Tutto qui? Esitazione telefonica, poi:

“Da circa un mese abbiamo avviato una ricerca con la cattedra d’immunologia dell’università di Roma. Stiamo cercando questa sindrome tra gli omosessuali in cura da noi”.

E che cosa è stato trovato?

“La nostra cattedra voleva sapere come stanno le cose da noi” mi rispondono ad immunologia.

“Ma a chi chiedere? Non ci sono né organi ufficiali né canali privati che ci possano aiutare. Cosi abbiamo promosso questo tentativo di studio pilota su un campione (7-8 pazienti) in cura presso il San Gallicano per gonorree, condilomi acuminati ecc. Tutto quello che possiamo dire è che abbiamo trovato in genere un po’ di squilibrio immunitario. Non ancora preoccupante, ma esistente comunque”.

E voi che cosa avete fatto allora?

“Per il momento, niente. Non abbiamo lo status per intervenire”.

Forse c’era da aspettarselo. Vi ricordate dei bambini che due anni fa morivano di encefalite a Napoli? Beh, continuano a morire. Non più tanti come allora, ma comunque muoiono lo stesso. Solo che non se ne parla più. Ecco tutto.

Cover di Frigidaire n. 27 – Febbraio 1983