In questa fase di “sospensione” la cultura si sta riscoprendo fragile e tenace al tempo stesso: si sta interrogando su sé stessa, su cosa rappresenti per le persone, su quando potrà tornare nuovamente a farsi sentire. Ma soprattutto su come potrà: quali saranno le sfide che la cultura dovrà affrontare per riabbracciare e accogliere questa società oggi per molti aspetti, non solo sanitari, così sofferente? Ho avuto l’onore di porre alcune domande a Claudio Longhi, direttore artistico di ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione, una delle istituzioni più importanti del panorama teatrale italiano, nonché Teatro Nazionale della nostra Regione.

L’epidemia è arrivata in Emilia-Romagna all’avvio di VIE Festival, costringendovi in data 24 febbraio ad annullare tutti gli spettacoli in cartellone. Quali sono stati i vostri sentimenti e pensieri a riguardo? Il pubblico e le compagnie quali reazioni hanno avuto?

L’ordinanza regionale per la precisione è stata pubblicata domenica 23 febbraio nelle ore in cui erano in scena Concorso europeo della canzone filosofica  e Architecture (il primo al Teatro Bonci di Cesena e il secondo all’Arena del Sole di Bologna, ndr). Domenica sera è comunque andato in scena Chi ha ucciso mio padre al Teatro delle Passioni di Modena perché l’ordinanza di fatto entrava in vigore da mezzanotte.

Dal giorno successivo però abbiamo dovuto annullare tutto.

Emotivamente e organizzativamente è stata un po’ una bomba: il Festival ha per sua natura un carattere molto “peculiare”, è una manifestazione a cui si lavora incessantemente per un anno e poi, contrariamente alla stagione che ha un tempo di restituzione di un anno, avviene tutto nell’arco di una settimana. L’interruzione è stata abbastanza deflagrante dal punto di vista emotivo e, per rimanere dentro un lessico teatrale, è abbastanza pregnante parlare oggi di quei giorni: lo ammetto, io per primo, il 23 di febbraio non avevo chiara la portata di quello che sarebbe successo di lì a dieci giorni. C’era anche una sensazione un po’ di smarrimento nel non capire bene il senso di quello che stava accadendo. Ripenso anche al rapporto con gli artisti stranieri in quelle ore molto convulse tra il sabato e la domenica, ci sono arrivati molti messaggi: c’era una compagnia cilena che doveva prendere l’aereo lunedì mattina che continuava a chiedere “Cosa facciamo? Partiamo? Non partiamo?”. Avevamo il convegno EASTAP (European Association for the Study of Theatre and Performance) durante il fine settimana successivo e molti docenti avevano cominciato a telefonare e a scrivere. Addirittura, per la compagnia di The Metamorphosis, metà dei componenti era già arrivata in Italia mentre l’altra metà era ancora in Scozia. Un impatto emotivo davvero molto forte.

Teatro Dadà. Fotografia di Futura Tittaferrante Intervista Claudio Longhi Modena Cultura MoCu
Teatro Dadà. Fotografia di Futura Tittaferrante

Rimanendo sempre dentro un piano per così dire di “diario privato, emozionale”, mi ha colpito anche il fatto che il Festival di quest’anno era un VIE dedicato all’Europa, una riflessione sulla crisi e sulle sue prospettive. Avevamo appena concluso una serata molto bella con Donald Sassoon e Fernando Savater al Teatro Storchi, tante cose erano state dette e da lì è partito quel delirio che sappiamo essere in questo momento la gestione del rapporto con l’Europa. L’altra cosa che mi ha colpito è stata che quella domenica sera, mi ricordo eravamo in riunione al Teatro Passioni per cercare di capire cosa fare proprio in ragione della tipologia di programmazione che avevamo in corso, continuavamo a ricevere delle telefonate dalla Svizzera, dalla Francia, dalla Germania per capire cosa stava succedendo. In quelle ore non era ancora così chiaro quello che poi è diventato chiaro subito dopo: si stava agitando qualcosa che andava aldilà dei confini di casa nostra, all’interno di un quadro che poi mi ha fatto molto pensare in rapporto a quella riflessione sull’Europa di cui si diceva prima.

Teatro Bonci – Cesena

È davvero assurdo pensare come la situazione sia precipitata in pochi giorni. Ricordo che il 21 febbraio è arrivata la comunicazione ufficiale del primo italiano positivo al Covid-19 e dopo poche ore sono state pubblicate le varie ordinanze che hanno poi portato alla chiusura dei teatri.

Il 21 febbraio abbiamo avuto la serata inaugurale di VIE Festival, il 22 mattina dovevo recarmi a Milano per un incontro legato a un nostro progetto internazionale e poi ritornare precipitosamente a Modena per le attività legate al Festival.

Quindi io il 22 mattina di fatto ero a Milano e rimasi sconcertato perché lì la cosa aveva già un sapore diverso da com’era qui da noi: ho visto in Stazione Centrale tutti con le mascherine, i treni con ritardi mostruosi. Mi sono chiesto “Ma cosa sta succedendo?” ed era solo il 22 mattina. Poi è precipitato tutto nelle quaranta, quarantotto ore successive.

Teatro Fabbri Vignola

Sin dal primo Decreto il teatro e la cultura in generale hanno subito delle immediate restrizioni fino alla chiusura totale, cosa invece che non è avvenuta per gli altri campi della vita lavorativa nei quali il Governo ha cercato di trovare il modo per permettere una qualche forma di continuità. Cosa ne pensa in merito?

Mi sforzo di essere il più equanime possibile in una situazione in cui è molto difficile naturalmente esserlo. Faccio due grandi premesse. Prima considerazione, in questo momento è difficile fare delle valutazioni con un’emergenza sanitaria di tale portata in atto e mi rendo conto che, quando sono in gioco delle vite, queste vengono prima di tutto. Seconda considerazione, mi sento per tanti aspetti inadeguato nel formulare dei giudizi: è una cosa talmente più complessa, grande e fuori dalle mie competenze. Penso che sia facile scaraventare la colpa sugli altri.

Fatte queste premesse, che credo siano necessarie e responsabili, mi sento di dire una cosa: ancora una volta ci troviamo davanti ad una situazione che è tipica del nostro paese, quella non di percepire la cultura come un lavoro. Questa è una caratteristica del nostro impianto culturale, da sempre. Si potrebbe a lungo discettare rispetto a dove sia l’origine di tutto ciò: vogliamo dire che è una certa vena idealistica della nostra cultura che forse risale al Petrarca dell’Invective contra medicum e che è stata sancita definitivamente da un certo approccio gentiliano, figlio di Croce, alla cultura? Tutto questo può essere, ma sono davvero processi molto complessi. Resta il fatto che per noi la cultura non è un lavoro. Mi piace ricordare una battuta folgorante di Luigi Squarzina, una mente lucidissima nelle analisi teatrologiche, che a un certo punto disse «Attenzione, la regia non è un’estasi dello spirito ma è un modo di produzione», o mi viene in mente L’autore come produttore di Walter Benjamin. Non dobbiamo dimenticarci che tra le tante cose che è la cultura, è anche lavoro.

E non solo è lavoro, ma genera lavoro. Questo è un altro aspetto che forse ancora fatichiamo a capire. Quando dico genera lavoro intendo dire che se dovessi fare una valutazione dell’impatto economico della cultura, sicuramente esiste il turismo, sicuramente esiste l’indotto che deriva dal fatto che centinaia di lavoratori gravitano nell’ambito della cultura. Ma soprattutto la cultura, in quanto tale, producendo pensiero e attitudine al pensiero, innerva la società nel suo complesso. L’indice del consumo culturale non è semplicemente l’indice del funzionamento del comparto economico della cultura, ma è anche un indice che poi si riflette nella lucidità con cui vengono prese le scelte, nel livello di consapevolezza con cui maturano le decisioni, con cui si attuano poi tutti gli altri processi produttivi e decisionali. Quindi, esiste una doppia ricaduta nella dimensione lavorativa della cultura a cui non possiamo rinunciare.

Un momento come questo, in cui ovviamente ci sono tante cose importanti (e mi viene da dire anche più importanti di noi perché mi rendo conto che la produzione di un respiratore in questo momento è decisamente più emergenziale), ha anche quello sforzo di civismo a cui noi tutti siamo chiamati, quel senso di appartenenza di una comunità, il senso della comunità, la capacità di dire “noi” anziché dire “io”. Penso banalmente al problema del dialogo europeo: mi pare delirante che non ci si riesca ad intendere rispetto alle strategie da mettere in atto per far fronte all’emergenza in corso, ma queste di cui stiamo parlando sono problematiche di carattere culturale. E quindi la cultura, ripeto, in un momento di emergenza sacrosanta perché ci sono delle cose che comandano, non può essere troppo trascurata perché il rischio dietro l’angolo è di trovarsi ancora più in difficoltà nei mesi a venire che non saranno semplici.

Teatro delle Passioni

In risposta a questo periodo di “sospensione”, moltissime realtà teatrali hanno elaborato delle proposte sui social. Anche ERT ha proposto al pubblico il Suo #ioleggoacasa.

Qual è il suo giudizio su questa alternativa al teatro? Crede che, finita questa fase, questi esperimenti avranno ancora vita?

Intanto, personalmente non li considero e non li vivo come strumenti alternativi al teatro. Diciamo che intanto li vivo personalmente come un gesto concreto per dire “ci siamo” e un orizzonte per costruire socialità o socievolezza: credo sia più che mai necessario nel momento in cui ci chiediamo di farci carico di un senso collettivo di appartenenza a un paese all’interno del quale ci sentiamo ripetere “dobbiamo stare insieme”. Dobbiamo capire che il comportamento del singolo ricade sul comportamento collettivo, quindi di fatto stiamo parlando di un senso di appartenenza ad una comunità. In questo senso parlo di un gesto del “ci siamo” e del piccolo contributo che può dare nel costruire socialità o socievolezza. Questo come prima cosa.

In secondo luogo, non li penso assolutamente né alternativi né surrogabili al teatro perché il teatro è qualcosa di unico e irripetibile che si può dare solo in un incontro in presenza tra un soggetto che guarda e un soggetto che fa: due soggetti che partecipano, per usare un verbo ancora più tecnico, a un’esperienza. Tutto quello che non comporta ciò non è teatro. Quindi stiamo parlando di oggetti diversi.

Rispetto al senso di queste sperimentazioni, mi viene da dire che ce lo hanno insegnato, che i linguaggi artistici sono soggetti a delle evoluzioni e che le condizioni di contesto, come ogni materialista storico sa bene, incidono sull’organizzazione dei mezzi di produzione e dei mezzi di espressione. Quindi è inevitabile che i linguaggi evolvano.

Da anni è in atto un processo di riflessione intorno alle forme di rappresentazione in presenza e alle forme mediatiche. È chiaro che la situazione in cui ci troviamo sta in questo momento determinando una specie di ondata esplosiva che concentra l’attenzione, ma non penso che sia questo che cambierà le dinamiche. Piuttosto, credo che questo non sia che un segno di dinamiche che sono in atto e che porteranno a degli aggiustamenti, a dei ripensamenti. È la stessa ragione, citando di nuovo Benjamin, per cui a un certo punto il clavicembalo è diventato il pianoforte: ci sono delle inevitabili evoluzioni nel supporto del materiale e nella tecnica del linguaggio artistico. Ovviamente non si potrà venir meno a certe cose perché altrimenti si smetterà di essere in teatro. Ovviamente certe cose cambieranno come sono già cambiate perché oggi facciamo teatro in un modo molto diverso a come lo facevano in passato. Per cui non facciamoci travolgere dalla cronaca ma non dimentichiamoci di essere nella storia.

Teatro Dadà. Fotografia di Futura Tittaferrante

Collegandomi alla domanda di cui sopra, può esistere un’alternativa al teatro concepito fino a ora? Se sì, per lei quale potrebbe essere?

Il teatro queste esperienze le ha già conosciute. Pensiamo a cosa accadeva nella Londra del sedicesimo o diciassettesimo secolo quando scoppiavano delle pestilenze: i teatri restavano chiusi anche per due anni e ci si inventava delle forme di teatralità alternativa ex lege. Se si entra nell’ottica della storia, ci si rende conto e si registrano tante cose.

Detto questo, ovviamente questo ragionamento non pretende l’assolutezza perché siamo per l’appunto dentro un flusso storico: esistevano i dinosauri e i dinosauri si sono estinti, qualcosa cambierà ideologicamente. Ma non credo che nell’immediato (e quando dico immediato parlo di un lasso di tempo di una decina d’anni) il teatro cambierà a tal punto da rinunciare al proprio statuto. Penso che possano esistere delle cose che rasentano il teatro senza esserlo, che tradiscono il suo statuto, ma in questo caso non stiamo parlando di teatro. Stiamo appunto parlando di altre esperienze artistiche.

Arena del Sole. Fotografia di Futura Tittaferrante

Rispetto al 24 febbraio, questa fase di sospensione si sta mostrando più lunga di quanto probabilmente tutti si aspettassero. Che conseguenze avrà questo periodo sul teatro?

Bella domanda. Diciamo che sono giorni che mi sto interrogando su questo tema, su come non essere sorpassati dalla realtà quando comincerà la “Fase due”. Il rischio della separatezza, il rischio dell’hortus conclusus, il rischio dello stare da parte è un rischio sempre potenzialmente implicito nella pratica teatrale ma è altresì necessario mordere la realtà e stare sul campo. È sempre molto difficile giudicare le situazioni quando ci si è dentro. Questo momento suona come un appuntamento con la storia. Mi auguro di venire disdetto dai fatti e che tra cinque mesi ci risentiremo e rideremo di questa conversazione, ma non credo, perché già il numero di morti che ci sono stati fino a ora di per sé ci dice che ci siamo davvero ad un appuntamento con la storia. Quindi, per un verso sento il peso di questa cosa, di questa strana situazione: mai e poi mai avrei pensato nella mia vita di trovarmi così a un appuntamento con la storia, anche perché fondamentalmente ci eravamo un po’ tutti convinti che la storia stava da un’altra parte. Tutto ciò ci sta ricordando che invece non è così, che nella storia ci siamo immersi e tanto.

In queste ultime settimane mi sono tornate compulsivamente alla mente quelle lucidissime parole di Albert Camus in La peste (mai come ora un romanzo dall’incredibile capacità di parlarci), in cui l’autore davanti all’impotenza del medico di fronte alla peste commenta «L’importante è fare bene il proprio lavoro»: c’è un invito a una grande assunzione di responsabilità nel fare bene il proprio lavoro. E questo vuol dire in questo momento interrogarsi su cosa sarà il dopo. Credo che il dopo sarà fatto ancora una volta di una sovrapposizione di stati d’animo molto diversi in cui ci sarà sicuramente voglia di stare insieme.

Noi abbiamo un rapporto molto forte con l’Opera di Pechino, in queste settimane siamo stati sempre in contatto con loro. Mi hanno scritto ieri, e questo gesto mi ha molto colpito, dicendomi che ci stanno inviando delle mascherine per i dipendenti di ERT. Da quanto mi riferiscono, lì sono un po’ più avanti di noi rispetto ai tempi dell’epidemia, c’è tanta voglia di stare insieme, ma credo anche che questa tanta voglia di stare insieme dovrà convivere con una grande paura e questo renderà ancora più fragili ed esposti i luoghi della cultura, di questo dobbiamo farci carico e credo che ci siano delle scelte politicamente molto importanti da fare come Istituzione. In fondo ERT è un Teatro Regionale e Nazionale, fortemente legato anche agli enti comunali che sono una parte indispensabile dell’esistenza della nostra Fondazione. Quindi, in questo momento, da amministratore di un’istituzione pubblica sento molto il peso della relazione con questi diversi gradienti di intervento: Stato, Regioni e Comuni.

C’è la necessità di interrogarsi sulle linee politiche e interrogarsi implica prendere delle decisioni. Le decisioni sono sempre dolorose perché decidere di fare una cosa significa non farne un’altra, per ogni strada intrapresa ce n’è un’altra che si abbandona e quindi c’è sempre un senso di arricchimento e perdita contemporaneamente. Ma è importante assumersi la responsabilità delle decisioni cercando, nel possibile, ognuno con i propri mezzi, ognuno con la propria intelligenza, ognuno con la propria (e qui uso una parola molto cara a un autore che ho molto frequentato in questo ultimo periodo che si chiama Elias Canetti) coscienza di quello che si fa. Forse, senza nessun genere di retorica, senza nessun genere di enfasi, dobbiamo cercare di riprendere consapevolezza del peso delle parole. Ultimamente abbiamo iniziato a usarle con un po’ troppa disinvoltura. Le parole sono pesanti, possono essere delle pietre. Sia pietre per costruire, sia pietre per lapidare e quindi bisogna essere molto cauti nel parlare.

Per concludere, ci sono delle grandi responsabilità che ci attendono, c’è un quadro molto complesso e confuso, strutturalmente composto dalla sovrapposizione di queste spinte fatte dal desiderio e dalla paura di stare assieme. Poi ci sono degli elementi che sfuggono completamente al mio controllo, ossia cosa ci sarà effettivamente consentito o non consentito fare, in rapporto al fatto che, come già ci hanno ampiamente spiegato, con il Covid-19 dovremmo convivere almeno per qualche mese prima che si trovi il famoso vaccino. Tutto questo avrà delle ripercussioni, sono cose che ci inchiodano, come dicevo prima, a una coscienza e a una responsabilità in cui mi auguro che tutti i discorsi sulla funzione del lavoro culturale, la funzione della cultura, non vengano dimenticati. Perché credo che sia indispensabile prendersi cura del sistema sanitario di un paese, credo che sia fondamentale garantire la sopravvivenza dell’economia di un paese di cui fa parte la cultura. Credo che sia anche fondamentale dotare un paese di metri di misura per giudicare la realtà. E la cultura è anche questo.