Il 17 maggio 2004 è stata istituita la Giornata Internazionale contro l’Omofobia, a 14 anni esatti dalla decisione di rimuovere l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali secondo la classificazione dell’OMS. Negli anni successivi si è scelto di accogliere negli obiettivi della Giornata anche la transfobia (2009) e la bifobia (2015).

Modena Pride 2019. Fotografia di Alessio Bogani. MoCu Modena Cultura
Modena Pride 2019. Fotografia di Alessio Bogani

Per ricordare questa Giornata ho intervistato Ethan Bonali, uomo trans non binary, coordinatore della rete Trans Nazionale Arcigay per la comunicazione e il lavoro, con un libro in uscita in autunno per Villaggio Maori edizioni: Non binary: Atlante di disorientamento di genere.

Ethan Bonali

Nell’immaginario comune, il fobico è colui che esegue una forma di violenza palese, verbale o fisica, generando una condanna più o meno condivisa dal punto di vista sociale nei confronti dell’aggressore.
Oltre a questa forma, ne esistono infinite di più sottili e sommerse, come battute o frasi stereotipate: in che modo possiamo rispondere?

Trasformandoci in teatro, ovvero portando in ciò che crediamo la realtà e al contempo l’assurdità dei presupposti di quelle battute. La Traviata Norma, opera di Mieli, ne è l’esempio estremo.

È proprio portando la persona che esegue quella battuta stereotipata in un’atmosfera surreale che si spiazza la cultura di cui fa parte, spostando il centro della realtà altrove e riportando la dimensione relativa di ciò che ognuno crede immutabile e intoccabile.

Dobbiamo cominciare ad amare tutto ciò che è insicuro, relativo, mutabile. La sperimentazione rende liberi.

Qual è l’apporto positivo delle “etichette” o categorie accolte nella sigla in espansione LGBTQIA+? Sono un aiuto per chi si identifica in esse o sono foriere di divisioni interne alla comunità? 

Io sono sempre favorevole alla confusione creativa. Lo spiazzamento porta alla scoperta casuale di realtà altre e anche di nostre realtà. Ci scopriamo continuamente. Dobbiamo dare potere alle parole ma essere anche capaci di toglierlo. Intendo che certe parole hanno la funzione di una chiave che ti apre una porta ma potrebbero durare l’arco di un momento, quello necessario ad uscire da un confine fittizio. Tutte queste etichette ci forniscono i vissuti particolari, le sfumature, le fantasie. Tutto quello che ci allontana dall’essere o divenire prodotti.

La (ri)emersione di nuove realtà porta fisiologicamente a conflitti poiché esse reclamano spazio politico e di narrazione. Questo spazio va negoziato con le realtà identitarie istituzionalizzate.

Trovo interessante lo spiazzamento identitario in atto e la razionalizzazione che se ne sta facendo. Parlare di tendenze divisive è la verbalizzazione di un desiderio di uniformità e di paura del dissenso, di ciò che è diverso. Questa è l’interiorizzazione del suprematismo. La paura di perdere i propri confini è sana, significa che percepiamo la nostra stessa costruzione identitaria. Nominare però la differenziazione e la proliferazione vitale di sessualità e identità di genere sconfinanti quali divisive significa, sotto sotto, desiderare un’uniformità simile ad un sistema oppressivo. La costruzione identitaria dei movimenti suprematisti si basa proprio su un discorso identitario privo di sfumature e che, anzi, ne è terrorizzato.

Cosa manca al percorso formativo di oggi per far sì che gli adulti di domani non siano omobitransfobici?

Il ridimensionamento dei vissuti. Ovvero fornire l’intero spettro di possibilità esistenziali e di realizzazione personale. Il superamento del confronto che si è ridotto sempre ed esclusivamente al contrasto di due parti e quindi alla definizione di una verità vincitrice invece che essere la costruzione di conoscenza. Insegnare l’amore per l’esplorazione e la sperimentazione per uscire dalla definizione precoce della propria sessualità e del proprio genere. Quindi, una società in ascolto e in scoperta. Una società che partecipa delle vite degli altri.

Sarebbe fondamentale, per esempio, riuscire a vedere l’infanzia gender variant come esplorazione sana di sé e non come una situazione da monitorare, che ne svela l’ansia sociale di rientrare nella norma.

In quali manifestazioni della cultura, anche pop (libri, serie tv, film), ti è capitato di incontrare rappresentazioni di personaggi e dinamiche LGBTQIA+ positive e realistiche? E in quali hai riscontrato un approccio stereotipato o critico? 

Ho amato molto il film Shortbus – Dove tutto è permesso. Se vogliamo, lì la non normatività è stereotipata e vi è la ricerca di situazioni estreme. Ma in quel caso non si ha banalizzazione ma la creazione di una lente di ingrandimento stupefacente su tutto ciò che anche la comunità LGBT vuole tacere.

Segnalo Shameless in cui è raccontata anche la storia tra due ragazzi in un tessuto sociale di povertà e mascolinità tossica. La storia è veramente ben inserita ed organica alla trama generale; la realtà LGBT non è un cammeo avulso e a parte, ma espressione di quella trama.

In The L Word, nonostante l’evidente stereotipizzazione di alcune realtà inserite in un contesto di trama bianco e borghese, ho apprezzato la comparsa di alcuni cammei quale il cross-dresser, la persona non binary (Lisa, la lesbica in un corpo di uomo) passati in totale sordina e forse anche in parte ridicolizzati, soprattutto il secondo; ma riconosco il merito di averli rappresentati in tempi decisamente non sospetti.

Come libro segnalo il grande classico di Leslie Feinberg Stone Butch Blues, che va letto sotto più punti di vista. Se è vero che tratta delle sfumature della mascolinità nel quale i confini tra butch e uomini trans si confondono, è anche vero che ne esaspera gli stereotipi. Questo è sicuramente dovuto al momento della narrazione: l’inizio della presa di coscienza della comunità Trans maschile e della classe sociale operaia di cui fanno parte tutte le figure presenti nel libro.

Fra le realtà della comunità LGBTQIA+, vicine e lontane, come quelle che hai conosciuto nel periodo che hai trascorso in Brasile, quali ritieni siano le categorie su cui concentrarsi ora, perché più esposte a fenomeni di intolleranza e violenza?

Quelle in cui si ha l’intersezione di sistemi oppressivi e quelle la cui oppressione è invisibile. Parlo per esempio delle donne transgender, in cui si intersecano transfobia e transmisoginia e per le quali, spesso, si aggiungono povertà e stigma del lavoro sessuale.

Penso alle persone migranti LGBT, che devono dimostrare di rientrare negli stereotipi del migrante e della fragilità di questa situazione.

Penso alla parola lesbica, invisibilizzata, e che ha il portato di una realtà che è fuori norma.

Penso alle persone non binary, ostracizzate spesso dalla stessa comunità LGBT che sceglie di schierarsi con la società che la include ma che le impone criteri eteronormati.

Penso ai minori gender variant e alla negazione della loro capacità di fare scelte su se stessi e di essere consapevoli di chi sono.