Alcuni mesi fa mi sono imbattuta nella lettura di un articolo online che raccontava di un giornalino scritto dai detenuti del Carcere di Sant’Anna all’interno della sezione Ulisse. Cercando di reperire più informazioni possibili ho subito pensato fosse una bella storia da raccontare su MoCu e dopo alcune ore passate invano alla ricerca di qualche approfondimento mi sono decisa a cercare il contatto di qualcuno che potesse raccontarmi di più su questo interessante progetto.

Riesco a incontrare Pier, occupato da oltre 20 anni in attività di volontariato insieme al gruppo Carcere Città, nonché direttore editoriale di Ulisse appunto, giornale della Casa Circondariale di Modena. Pier è entusiasta del mio interessamento ed entriamo subito nel vivo. Gli dico che vorrei andare con lui in carcere, sapere di più dell’attività che svolge con Ulisse, parlare con i detenuti, raccontare. Questo è il punto: capisco subito che ciò che mi preme di più, conscia di quanto poco si sappia della pena detentiva, è raccontare, far alzare un po’ di vento sulle parole del giornale, poiché possano oltrepassare le mura entro le quali vengono scritte.

Così ci accordiamo per mettere avanti le pratiche per la richiesta di ingresso in carcere, e passati alcuni mesi, entro anche io all’Ulisse.

Ricordo benissimo la marea di sorrisi e domande che mi hanno accolta dopo le sette porte che separavano me e la mia vita vissuta in totale libertà dagli uomini detenuti nella casa circondariale di Modena. Quella che vedi di sfuggita dalla tangenziale passando da una parte all’altra della città, quella che per un attimo pensi “chissà come è la vita dietro le sbarre?”, guardando velocemente dal finestrino. Adesso ero li, insieme a Pier e ai circa 40 detenuti della prima sezione. A parlare di MoCu, a dare un senso alla mia presenza ma soprattutto ad ascoltare le loro storie. Un fiume di storie, la voglia di raccontarsi, la curiosità di sapere se avessi paura a stare con loro.

Nei mesi che hanno preceduto questo momento ho avuto modo di riflettere su quello che avrei potuto fare una volta li. Ho scoperto anche parlando con Pier che la percentuale di recidiva all’interno del carcere si aggira intorno al 70% e ho meditato a lungo su come il mio intervento potesse dare un piccolo contributo nel diminuire questo dato allarmante. Per costituzione il carcere dovrebbe essere un luogo non solo di detenzione ma riabilitativo, capace di dare gli strumenti utili alla ricostruzione emotiva e personale dei detenuti. La realtà è però molto diversa, per una serie infinita e molto complessa di motivi legati a più parti, ma ho immaginato da subito la possibilità di fare di MoCu un megafono per tutte le parole scritte sull’Ulisse. Il giornale viene stampato in maniera non professionale e in un numero di copie sufficiente appena ad essere distribuito all’interno del carcere e a qualche conoscente del gruppo di volontari. La speranza è che con l’aumento della condivisione e degli strumenti a disposizione possa aumentare anche la consapevolezza della collettività in merito alla condizione dei detenuti così anche la sensibilità rispetto a temi che troppo spesso sono trattati con superficialità o ancor peggio strumentalizzati: diversità, razzismo, immigrazione, droga, tra i tanti. Sull’Ulisse, dal 2014, si parla soprattutto di uomini, e forse avvicinare uomini alle storie di altri uomini potrebbe essere utile nel rendere la nostra città sempre più pronta all’accoglienza e all’inclusione.

A questo link è possibile leggere il primo numero di Ulisse

Con queste premesse nasce la collaborazione tra MoCu e il gruppo Carcere Città, con lo specifico compito di supporto redazionale e rinnovamento grafico di Ulisse, il giornale della casa circondariale S. Anna di Modena. Quello che, se avrete voglia, potete leggere qui, è il primo numero del giornale per il quale continuerò a dare ogni settimana il mio piccolo contributo anche in sezione e per il quale Elia curerà interamente la veste grafica. 

Per cercare di raccontare al meglio questo progetto e la complessità delle azioni che vi gravitano attorno ho pensato fosse davvero utile approfondire con Paola Cigarini la storia del gruppo Carcere Città, del quale è fondatrice, ed entrare più nello specifico nell’attività di Ulisse con Piergiorgio Vincenzi, volontario del gruppo e appunto responsabile editoriale del giornale. Così ho fatto loro alcune domande.

 

Paola, in che contesto sociale inizia a svilupparsi il gruppo “carcere-città” e con quali obiettivi?
Era la metà degli anni ’80 e si iniziava a parlare di droga a Modena, come nel resto del paese. Le istituzioni iniziavano ad attrezzarsi per far fronte a questa nuova emergenza, e un piccolo gruppo di cittadini impegnati in attività sociali in quelli che allora si chiamavano Quartieri, iniziò a chiedersi quanto e come la droga lentamente avrebbe potuto condizionare, cambiare la nostra quotidianità e la vita di una città. Come cittadini abbiamo costituito un comitato di lotta alle tossicodipendenze per fare ricerche sul territorio, iniziative pubbliche, volantinaggi, incontri istituzionali e petizioni. Cercavamo in questo modo di far ragionare le istituzioni sul fatto che la città sarebbe cambiata perché la droga avrebbe inciso fortemente su temi quali la sicurezza e la paura.

1987. Nasce il gruppo Carcere-Città. Come si costituisce il gruppo e come avviene l’avvicinamento al carcere?
Un giorno i giornali pubblicarono la notizia che una persona era morta di overdose nel carcere cittadino di Sant’Eufemia. Il dono della curiosità ci ha fatto da subito riflettere su come fosse possibile morire per droga in carcere e ha fatto crescere in noi il desiderio di conoscere un altro pezzo del problema tossicodipendenza. Il carcere era, in pieno centro storico, un luogo sconosciuto, e non potevamo comprenderne a pieno i meccanismi solo attraverso i libri, i giornali o gli esperti. Dovevamo vedere per capire e, così, grazie al coinvolgimento della senatrice Maria Teresa Granati e dell’Onorevole Luciano Guerzoni, nell’aprile del 1987 siamo entrati per la prima volta nel carcere di Sant’Eufemia. Il giorno seguente uscì un comunicato sulla stampa locale che riportava alcune delle cose che ci erano sembrate negative, e nel quale si faceva accenno ai temi della droga e dell’aids. I carcerati lo lessero, e di contro, scrissero una lettera minatoria al direttore, preoccupati di come i propri familiari avrebbero reagito. In questa condizione, nel dicembre 1987, dopo il convegno Conflitti-devianze-carcere-città: è possibile una risposta dopo il carcere? organizzato dalle Circoscrizioni Centro storico e San Faustino – Saliceta San Giuliano, dal Comitato di Lotta alle Tossicodipendenze e dal Circolo Proposte Culturali, si costituisce il gruppo Carcere-Città.

Quali sono le principali finalità del gruppo?
Il Gruppo vuole contribuire a far crescere nella città una cultura di solidarietà e non di emarginazione nei confronti della popolazione carceraria; così come vorrebbe fungere da stimolo e verifica verso le Istituzioni affinché si facciano carico del carcere per contribuire a farne un luogo più umano e più adeguato ai livelli civili e culturali di Modena.

 

Sappiamo che sul carcere si rovescia quanto di conflitti, contraddizioni, carenze si genera nella società e resta irrisolto: il disagio, il malessere sociale, il destino incerto di una intera generazione spesso scolarizzata, spesso senza lavoro. Come impedire che queste contraddizioni abbiano come esito il carcere? Come prevenirlo o almeno come ridurne l’incidenza in modo ben più significativo di come si è fatto fino ad ora? Nessuno può ritenere di chiamarsi fuori da questi problemi.

Dal manifesto costitutivo del Gruppo Carcere-Città

 

Il carcere nella città, la città nel carcere. Il nome del gruppo racconta molto dello spirito con cui si è costituito. Che rapporto aveva e ha la città con la realtà di reclusione?
Il tema della città, luogo da cui arrivano in carcere le persone detenute e dove a fine pena tornano, dove noi cittadini e volontari viviamo, collegato al problema sempre più imperante della sicurezza e dell’allarme sociale, è centrale nell’intervento del Gruppo che nelle istituzioni locali e nella società civile cerca da sempre alleanze e collaborazioni. Così incontrare il territorio, la città, il suo vivere quotidiano, per tenerlo collegato al carcere era ed è anche oggi al centro del nostro intervento. Siamo nati come cittadini responsabili, che vogliono capire il significato di “stare insieme”, trovare il modo di andare nella giusta direzione. Abbiamo visto nel carcere ogni giorno di più la somma dei problemi della nostra società: tutto quello che fuori vediamo nelle paure della gente lo abbiamo sempre trovato in carcere. Così negli anni sono nati progetti come Così lontani, così vicini, un percorso teatrale con il quale abbiamo dato vita all’incontro tra persone detenute e cittadini, nel tentativo di ricomporre, attraverso azioni concrete, una storica separazione tra chi ha commesso un reato e la collettività.

In che contesto si inserisce il gruppo (Casa circondariale Sant’Anna) e che tipo di attività svolgete oggi all’interno del carcere e delle case di lavoro?
Il carcere di S. Anna è stato inaugurato nel 1991, periodo nel quale l’ambiente di detenzione iniziava a cambiare con l’ingresso di persone straniere. Così anche il nostro intervento è cambiato nell’incontro con persone di cui conoscevamo ben poco. Sono cambiati i bisogni, le domande e le sempre più difficili le risposte che come volontari e come istituzioni dobbiamo offrire. Questa condizione non ha fatto altro che accrescere la necessità di parlare all’esterno, cercando in ogni modo di tenere vivo il rapporto tra il carcere e la città con le persone che la vivono. Così Abbiamo cercato di parlare attraverso il giornale “Buona condotta” che usciva due volte all’anno, la prima volta nel settembre del 2007, il blog buonacondotta.it, e una rubrica mensile nella sezione femminile sul giornale “Tempo” di Carpi, Un, due, tre cella.
Poi negli anni sono nati tantissimi progetti, come Peter Pan – essere genitori in carcere e una lunga lista di attività alternative al tempo vuoto: momenti ricreativi di vario genere, interventi di sostegno scolastico, incontri con studenti, personaggi o realtà nel nostro territorio, discussioni guidate su temi di politica internazionale, corsi di inglese e di pittura, colloqui individuali, corsi di formazione.
Tra i tanti progetti, nel 2014, è nata la sezione Ulisse, con l’intenzione di trasformare un pezzo di carcere in un luogo di senso e di responsabilità dove le persone detenute potessero vivere lo spazio e il tempo in un modo meno vincolato rispetto alla sezione comune. L’attività che più impegna i volontari alla sezione Ulisse è senza dubbio il giornale che proprio da questa prende il nome e che si è voluto inserire in questo percorso con l’ambizione di offrire alle persone detenute una tribuna pubblica da cui discutere liberamente i temi della vita in carcere.

 

Piergiorgio, come e con che scopo nasce il giornale e come viene accolta in carcere questa iniziativa?
Il progetto Ulisse aveva l’ambizione di presentarsi come il punto d’arrivo, un modello per tutto il lavoro che il carcere svolgeva. La persona detenuta, dopo un percorso nelle altre sezioni, vi giungeva perché aveva dimostrato di essere capace di gestire responsabilmente il suo rapporto con l’istituzione e con i compagni. Non più quindi l’infantilizzazione che l’istituzione globale induce, ma un percorso fatto da una persona adulta e responsabilizzata. Il progetto era ambizioso e difficile, prevedeva attività di vario tipo all’interno delle quali la persona detenuta avrebbe potuto scegliere quale seguire con continuità e costanza. Per attuarlo occorrevano parecchie risorse, non solo materiali, ma soprattutto umane.
Queste risorse non ci sono o sono insufficienti e così per portarlo avanti la direzione ha fatto affidamento soprattutto sul lavoro dei volontari, che non è mai venuto meno, ma che si è rivelato nel corso del tempo non sempre continuativo e sufficientemente autorevole.
Il giornale è una di queste attività, presente da subito e mai interrotta, nonostante un momento di crisi risolto con l’iscrizione della testata presso la cancelleria del Tribunale di Modena e la nomina di un direttore responsabile.

Come si sviluppa il lavoro all’interno della redazione, dalla progettazione alla pubblicazione?
Mi pare il punto più importante e più interessante. Ci si riunisce due volte la settimana, abitualmente il lunedì e il mercoledì pomeriggio, per un’ora e mezzo o due. La sezione è composta da 40/45 persone mediamente. Agli incontri della redazione, che sono sempre aperti, partecipano da un minimo di 6/7 persone, quando va male, alle 20 e più quando la discussione entra nel vivo e si fa vivace. A scrivere sono le persone detenute. Lo fanno con difficoltà e con fatica alla fine di un percorso lungo e a volte tortuoso. Si inizia proponendo qualche tema. Si sviluppa una discussione, si chiariscono i termini della questione, si mettono in evidenza i rapporti con la condizione carceraria. La discussione rimane fluida per un certo tempo, finché succede, quasi improvvisamente e in modo inaspettato, che qualcuno si lasci coinvolgere in modo forte, personale, da un’idea che diventa da quel momento centrale e, dopo aver preso la parola, accetti anche di mettere per iscritto le sue idee. In questo passaggio si perde sempre qualcosa e qualcosa si guadagna. Si perde la radicalità delle prime affermazioni, perché la scrittura costringe a mettere ordine e a tener conto delle compatibilità non solo sociali, ma anche interne al discorso, di tipo sintattico e retorico. Si acquista, soprattutto quando l’operazione è complessa, consapevolezza del proprio impegno, l’esigenza dell’approfondimento razionale che nella discussione a causa delle contrapposizioni forti non era stata possibile. Attorno a questo primo scritto ne nascono altri, che lo rafforzano o lo mettano in discussione. È molto importante quindi che la scrittura arrivi alla fine di incontri e dialoghi che a volte possono apparire anche inconcludenti o inutili, ma che sono in grado sempre di mettere in moto pensieri e riflessioni.

Che ruolo/effetti ha questo progetto per i detenuti che ne fanno parte?
Rispondo con due osservazioni rispetto alle dinamiche che si vengono a creare durante gli incontri settimanali. La prima è che molto spesso chi partecipa alla discussione non sa scrivere, perché le sue competenze linguistiche sono molto scarse (questo vale certo per gli stranieri, che sono la maggioranza, ma anche per molti degli italiani presenti). Si rende necessaria quindi la collaborazione e l’aiuto di chi invece queste competenze le possiede, volontari o compagni di detenzione che si prestano a mettere per iscritto i racconti o le riflessioni di chi si è assunto l’impegno della scrittura. Anche questa è un’operazione non facile che comporta perdite e guadagni. Il guadagno fondamentale è la leggibilità del pezzo, la perdita è l’immediatezza e la spontaneità. A volte succede che chi si impegna non rinunci a espressioni verbali e costruzioni sintattiche non corrette che sole, secondo lui, esprimono il suo pensiero. La seconda osservazione riguarda la possibilità che il tema proposto crei contrapposizioni e tensioni molto forti all’interno della sezione. È successo più di una volta, recentemente a proposito del razzismo nella società e in sezione e del rapporto con la droga (fuori) o con gli psicofarmaci (dentro) e l’uso che l’area sanitaria propone. Non siamo riusciti fino a ora ad affrontare con sufficiente serenità questi temi e così, piuttosto che suscitare tensioni non facilmente controllabili, li abbiamo messi da parte, con l’intenzione di riprenderli in un momento più favorevole. I protagonisti infatti cambiano velocemente e le condizioni in cui avviene la discussione muta anch’essa sebbene le condizioni di fondo rimangono le stesse.

 


 

Il carcere non può e non deve essere un pezzo di città di cui aver paura e da ignorare, e progetti come quello dell’Ulisse sono un faro per uscire dall’isolamento che lo identifica come una discarica sociale, come luogo dove finiscono gli scarti di una società che corre disordinatamente verso un futuro attraente per pochi e difficile per molti altri. Alla base c’è la consapevolezza che le paure e le insicurezze del nostro vivere quotidiano producono rotture nei legami sociali e che la pena inflitta all’autore del reato non avvicina i due protagonisti di quel conflitto, ma anzi li tiene lontani. Sostenere e condividere progetti come l’Ulisse significa anche dare i giusti strumenti alla città poiché possa riconoscere il carcere come parte di sé, attivare il territorio per elaborare percorsi con alto contenuto di sicurezza dove le regole siano un tema centrale, condizione assolutamente non garantita dal carcere così com’è.