Giovanissima, Laura Forghieri nasce a Pavullo nel 1990. Si diploma al Venturi di Modena poi, nel 2012, ha conseguito col massimo dei voti la laurea triennale in pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Brera.
A Modena, presso il reparto di Oncoematologia Pediatrica del policlinico, in collaborazione con la psicologa Camilla Migliori e il personale medico, ha creato un laboratorio che vede la creatività come risorsa e che è stato presentato nell’ambito del Convegno Annuale dell’ AIEOP del 2012. Attiva da anni nel panorama artistico nazionale e internazionale, Laura è stata selezionata la scorsa estate per un collettivo a Ca’ Zanardi, all’interno della Biennale di Venezia.

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Con una padronanza della tecnica disarmante indaga l’essere umano, compiendo una profonda analisi sulla condizione del corpo nella contemporaneità.
Corpo inteso non come mero elemento rappresentativo, semplice vestito che contiene la nostra anima, ma come un’entità direttamente espressiva, un’unione di soma e psiche.
Nei momenti di forte collera i nostri muscoli entrano in tensione senza che ce ne accorgiamo, la tensione è la proiezione, il prolungamento dello stato collerico, come l’involontario corrugarsi della fronte quando qualcosa ci rende perplessi: questa è quell’entità direttamente espressiva che affascina la pittrice. La maestria con la quale riproduce i suoi soggetti può trarre in inganno: a colpo d’occhio sembra che ci sia un intervento grafico ma basta avvicinarsi per cogliere il tratto diretto dei sottili veli di matita colorata. Tipa irrequieta, tendenzialmente solare a tratti nuvolosa.

La tua è la più tradizionale delle tecniche, il disegno su carta.
“Si, il disegno è tipicamente italiano e io sono un essere contestuale e sociale. Mi piace partire dalla nostra tradizione reinterpretandola in chiave contemporanea. Spesso i disegni su carta vengono un po’ bistrattati dal sistema dell’arte: è raro che venga attribuito un coefficiente alto in quanto si reputano di maggior valore altre tecniche, come la pittura ad olio per esempio. Questa scelta viene fatta perché generalmente il disegno viene considerato solo nell’ottica di fase preparatoria quindi come qualcosa di veloce e immediato.
Per me è diverso. Io sviluppo tutta l’opera su carta, che richiede costanza e dedizione, è un elogio alla lentezza. Impiego molto tempo per realizzare un’opera e questo mi permette di fare un percorso su me stessa disegnandomi attraverso me e gli altri, entrando in una sorta di analisi psicoterapeutica”.

Perché il corpo?
“Perché è il mio peggior nemico. Non riesco a staccare ciò che vivo dalla mia produzione. Cartesio separava il corpo dalla mente, io non credo sia così: siamo un tutt’uno. Da un po’ di tempo a questa parte lo sento estraneo, è il mio terreno di battaglia. Nelle relazioni si ha la necessità di litigare: la lite permette di conoscersi a fondo per poi riappacificarsi. Sto litigando e mi sto conoscendo meglio ma l’idea è quella di far pace, dopo tutto la relazione più duratura della nostra vita è quella con noi stessi”.

Cosa provi quando disegni?
“È un misto fra una confessione e una preghiera, confesso le mie colpe e vado avanti più leggera: mi lascio molto andare”.

Viviamo nell’epoca dei selfie. A quanto pare sembra indispensabile comunicare agli altri chi siamo. Ma il dialogo avviene davvero?
“Husserl sostiene che noi esistiamo con l’altro: abbiamo bisogno di un altro per esistere. Credo abbia ragione, il problema qui è che sembra non esista più nessuno. Questa frenesia dell’essere è un bisogno che il mercato si salvaguarda dal soddisfare pienamente altrimenti non ci sarebbe più domanda. Riproduciamo simulacri con estrema facilità e più lo facciamo più scompariamo. Il tempo per vivere lo investiamo scattandoci foto, l’ironia è che con tutte queste riproduzioni abbiamo smesso di riprodurci davvero. Questa cosa del like poi boh… lo vedo come un ansiogeno spermatozoo che va verso un ovaia senza cellule uovo. Un dialogo è un rapporto sessuale, si donano parti di noi per creare qualcos’altro. In ogni mio quadro dono una parte di me con la speranza che venga accolta: davanti a un opera il fruitore decide se essere amante o estraneo”.

Cosa pensi dei tanti che producono senza mostrare le loro opere?
“E’ una delle prime reazioni che si ha quando ci si approccia all’arte, si ha la presunzione di pensare che non sia necessario far vedere agli altri quello che si fa, considerandola una scelta pura priva di interesse. Pure io sono passata per quella fase, sono pudica e mi imbarazza sempre un po’ esporre i miei lavori. Un’espressione artistica nasce dalla necessità di far emergere qualcosa di profondo, se a Pinco Pallino fa star bene contemplare le sue opere in solitudine che continui così, ma è un po’ come parlare da soli. A me serve molto lo sguardo degli altri perché l’altro vede sempre qualcosa che tu non riesci a vedere.
Come dicevamo prima, se non c’è uno scambio non vi è un dialogo e senza un dialogo non può nascere nulla. Non ho mai visto i miei quadri come una riflessione intimistica che si ripiega su se stessa, sento l’esigenza di confrontarmi maggiormente con l’altro, in quello spazio meditativo quale è il foglio di carta, dove è possibile allacciare legami. Uno spazio e un tempo che siano metafora dello spazio e del tempo dell’arte. Questa è la sfida simbolica a cui vorrei invitare l’utenza”.

Prossimi progetti?
“Al momento sto esponendo alla Galleria PAC a Novi di Modena e mi è appena stato chiesto di collaborare con un nuovo brand da ‘indossare’, che si impegna nel proporre la grazia e il profumo del lavoro artigianale, valorizzando il perfezionismo e l’abilità tipici del made in Italy.
Mi entusiasmano le collaborazioni, soprattutto quando significano contaminazione, penso siano un’occasione di crescita e di scoperta. Lavorare con altre persone, condividendo saperi e sensibilità, significa far evaporare un ‘io’ che rischia di essere sempre elefantiaco, per scomparire a favore di un lavoro sinfonico, composto da più colori. Per quanto riguarda il mio lavoro personale, desidererei uscire da un aspetto ‘spettrale’ che finora, per necessità, penso l’abbia riguardato. La spettralità a cui mi riferisco non è l’atto d’amore di ricordare un morto, come scriveva Kierkegaard, che è “il più disinteressato e fedele, perché non soltanto non chiede nulla, ma sembra far di tutto per essere dimenticato”. Penso piuttosto a una spettralità che nasce dal non accettare la propria condizione, dal rimuoverla per fingersi a ogni costo un peso e una carne, come riflette Agamben in un suo breve saggio. La mia ultima serie è stata un tentativo di appoggiare i piedi per terra, abitare il mondo, perché sentivo questa fatica ad accettare la propria condizione di essere umani incompiuti, fallaci, e dunque profondamente spaventati da un mondo che segna il tuo corpo”.