Saper raccontare una storia è un’arte. Letizia era brava a farlo già nove anni fa, quando l’ho conosciuta. Ha testato la mia attenzione più volte nei brevi ma intensi viaggi in treno che facevamo ogni giorno da Modena a Bologna. Da quei viaggi è passato qualche anno, ma lei ha sempre continuato a raccontare.

La mediazione del patrimonio artistico è un settore davvero poco conosciuto in Italia. Molte persone pensano che la creazione di uno storytelling in un museo significhi semplicemente fare la guida: è quasi così, ma non esattamente.

Creare una narrazione o un percorso attraverso la mediazione è qualcosa che va un po’ più a fondo, che attira l’attenzione del pubblico perché va a toccare argomenti inaspettati e curiosi, con lo scopo di creare una connessione con l’interlocutore.

Storie e mirabilia è un progetto che si sviluppa prendendo come punto di partenza i musei del nostro territorio per andare a scovare le curiosità su ciò che ci circonda tutti i giorni.

Scoprire quali aneddoti può raccontare un singolo oggetto custodito all’interno di un museo è ciò che fa meravigliare i visitatori facendoli immergere nella storia del proprio territorio.

Nel rinascimento i mirabilia erano quegli oggetti che venivano raccolti nelle Wunderkammer, delle camere dedicate alle collezioni di cose “strane e curiose”. Un must per ogni ricco aristocratico illuminista.

Questi oggetti curiosi e sconosciuti che venivano da ogni parte del mondo, portati dai primi lunghi viaggi per il globo, danno vita al primo concetto di museo attraverso un’unica intenzione: racchiudere il mondo in una stanza.

Ma questa strana parola, mirabilia, ha altre origini: in epoca medievale erano dei libri che descrivevano luoghi e città per i pellegrini e i viaggiatori, come le nostre moderne guide di viaggio.

Così anche attraverso questi articoli l’obiettivo è creare dei percorsi, dei piccoli viaggi all’interno del nostro territorio, usando questi oggetti curiosi che possiamo vedere nei nostri musei, sperando di far scoprire cose inaspettate.

Letizia Cappella, mediatrice del patrimonio artistico, ci accompagna in questa scoperta e ci spiega come si sviluppa il suo lavoro.

 

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Raccontare storie fa parte del tuo lavoro, qual è il tuo metodo?

È sempre stata un’attività per me molto naturale, ma certamente con il tempo ho imparato, e sto imparando, ad affinare la tecnica.

L’attività di raccontare qualcosa risente, per fortuna, della personalità e l’attitudine del narratore, ed è per questo che la narrazione non richiede solo l’utilizzo della voce ma anche un coinvolgimento del corpo. Narrare può trasformarsi in una vera performance in certi casi e, infatti, è stato essenziale per me aver studiato recitazione e teatro.

Al di là dello stile c’è un elemento su cui bisogna concentrarsi ancor prima di iniziare a raccontare: il pubblico.

Prima di iniziare una visita guidata, ad esempio, cerco a colpo d’occhio di capire che tipo di pubblico ho davanti (ed è per questo che sarebbe molto più corretto parlare di pubblici, al plurale, per la varietà di tipologie di fruitori che possiamo incontrare).

È fondamentale per me creare un contatto, cercare un terreno comune in cui poter dialogare e confrontarsi, instaurare un rapporto visivo (quando è possibile), modulare la voce, utilizzare degli esempi o riportare delle situazioni che potrebbero essere vicine alla vita vissuta di chi ho davanti.

Non si racconta solo per noi stessi, ma per gli altri. È un gesto molto generoso, io credo.

 

Come reagisce il pubblico quando assiste a un percorso creato attraverso l’uso dello storytelling?

Quello che oggi chiamiamo storytelling non è altro che l’arte della narrazione.

La narrazione è un organismo vivo, fatto di metafore, di figure, di paradigmi, di domande e misteri che si nutre e cresce attraverso il corpo e la voce del narratore.

Soprattutto fa qualcosa di impareggiabile: non spiega, ma racconta, quindi permette di svincolarsi da una “politica del controllo” che ci vuole sempre più informati, ma sempre meno empatici.

Penso che le persone percepiscano benissimo quando un percorso è coinvolgente e rispetta le regole della narrazione e quando invece non lo è.

Mi è capitato di dover trattare anche argomenti particolari, talvolta complessi e un po’ ostici di fronte ad un gruppo variegato di persone, come al contrario mi è capitato di dover raccontare delle favole a dei bambini, ma anche ai loro genitori.

Sembra semplice ma non lo è affatto, anzi nel secondo caso la difficoltà aumenta perché l’adulto molto spesso si pone in atteggiamento di difesa quando crede che certe attività siano solo “da bambini”. Te ne accorgi subito quando succede: non ascolta, sfila il telefono dalla tasca e abbassa lo sguardo.

Coinvolgere l’adulto è una sfida dove serve però una collaborazione a doppio senso: il narratore avrà successo se l’adulto accetterà di aprirsi.

Ho il ricordo dell’estate passata in cui ho letto alcuni episodi dell’Odissea rimaneggiati per bimbi molto piccoli e i loro genitori.

Ci trovavamo all’aperto, ben distanziati come richiede il nostro presente e muniti di mascherina, tranne me. Rivedere delle persone in carne e ossa dopo tanti mesi poteva già bastare come emozione, ma il fatto che io fossi in piedi, con il volto scoperto e la bocca ben visibile penso abbia contribuito all’eccezionalità dell’esperienza.

Gli applausi dei bambini alla fine del racconto mi emozionarono, ma molto di più furono gli sguardi veramente rapiti dei genitori.

Ho capito che qualcosa l’avevo ottenuto.

 

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Come è stato trasportare il tuo lavoro dalla visita in presenza ai social network e alle piattaforme scolastiche?

Non è stato semplice, devo ammetterlo, sia da un punto di vista personale che prettamente lavorativo.

Ho passato i primi mesi in attesa che qualcosa cambiasse perché mi sembrava impossibile poter svolgere il mio lavoro con la stessa grinta e sperare anche in una buona riuscita.

L’emozione che può darmi un percorso in presenza è insostituibile, ma ho iniziato ben presto a sperimentare e a mettermi alla prova rispettando le regole che altri mezzi imponevano.

Sono sempre stata molto amante del virtuale, ma utilizzare i social a scopo divulgativo e lavorativo mi ha aperto un mondo di conoscenze e possibilità vastissimo.

D’altronde il mio lavoro di mediatrice culturale è proprio questo: adattare il contenuto al mezzo che ho a disposizione.

Instagram mi permette di arrivare prevalentemente ai colleghi del settore, ad aspiranti mediatori o a studenti consentendomi anche di stringere collaborazioni su più livelli.

Ogni volta che tratto di un argomento, che sia in un post o nelle stories, so che si tratta di una messa alla prova: Instagram ha delle regole ben precise in fatto comunicazione verbale e non. Mi appassiona molto.

Per quanto riguarda le attività didattiche online collaboro prevalentemente con una giovane startup bolognese, Wedu: mi occupo appunto di creare dei veri e propri tour guidati virtuali e immersivi per le classi della scuola primaria. Le piattaforme che utilizziamo vanno da Google Maps fino a programmi più complessi di realtà aumentata.

 

In un mondo ormai schiavo della rete, che fruisce di contenuti “mordi e fuggi”, credi che le persone abbiano bisogno di più storie?

Si tratta di un passaggio complesso, ma di estremo interesse e particolarmente importante. Le nostre radici affondano con forza nella tradizione orale e questo nessuno può negarlo. Basti pensare che tutta la nostra cultura occidentale si regge su una preghiera: “Narrami, oh Musa”, cantava Omero. Esiste qualcosa di più più fragile e misterioso?

La narrazione delle origini è caratterizzata da quel valore etico e politico dello “stare insieme”, un concetto che di questi tempi sembra al limite della legalità.

Dove voglio arrivare? L’essere umano è nato con i racconti e non potrà mai farne a meno. Le modalità si trasformano, ma le esigenze non cambiano, rimangono insite nella natura umana.

La rete rappresenta un enorme vaso di Pandora in cui le cose vorticano con una velocità inumana e in cui spesso è davvero complesso creare delle selezioni in base al valore effettivo delle cose.

Tuttavia, e a maggior ragione, questo non significa che non esistano al suo interno delle belle storie da raccontare, o delle storie tremende, o raccapriccianti, o romantiche, o intime.

Sarebbe molto interessante chiedere a persone di varia età e di diversa estrazione sociale che cosa ne pensano della figura del narratore oggi, e soprattutto sapere se secondo loro esistono ancora veri narratori.

La verità è che tutti siamo potenziali narratori perché c’è qualcosa di sacro che ci accomuna: l’esperienza della vita. Certo, va da sé che non basta vivere e fare esperienza per essere dei bravi narratori. Oggi è così difficile trovare persone che sappiano raccontarci qualcosa come si deve, se poi si coinvolge la scrittura va ancora peggio.

Quindi sì, le persone hanno bisogno di storie come sempre e a maggior ragione.

 

Come sceglierai i mirabilia dei tuoi articoli?

Quello che vorrei creare è una passeggiata per Modena alla scoperta dei luoghi culturali di interesse del nostro territorio che spero possa poi tradursi anche in un tour guidato per la città (chissà).

I mirabilia saranno le tappe del nostro viaggio: oggetti più o meno conosciuti custoditi in musei, gallerie, piccoli siti storici e culturali che sapranno raccontare storie curiose, creare interpretazioni e interazioni.

Troverete poche date storiche, quelle essenziali, come mi interessa relativamente fornire una spiegazione tecnica sull’utilizzo o meno dell’oggetto preso in considerazione.

Mi interessa invece raccontare il mistero dietro quell’oggetto, scoprire che significato potesse avere a quel tempo e quale legame può avere con i nostri giorni, attraverso la letteratura, la poesia, la filosofia.

La cultura e l’arte non fanno parte di una costellazione lontana, un capitolo isolato in un grande libro, ma si amalgamano e parlano strettamente con la vita che conduciamo tutti i giorni.

La storia inizia dove cade il tuo occhio.

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