Mai come nel caso di Omar la scelta di chiamare il proprio brand con il semplice nome, Omar, mi è sembrata inevitabile: non è per nulla facile individuare un discrimine fra il creatore e le sue “creature”. Gli abiti di Omar sono prima di tutto esperimenti su di sé, abiti reiterati in sequenze quasi identiche come da armadio di un maniaco del minimal (o di Dylan Dog) fino ad arrivare a carpirne l’essenza, abiti come prolungamento e completamento della personalità, sempre in divenire e prossima a perdersi dietro una nuova fascinazione. E poi c’è quella A capovolta, quello shift minimo, ma necessario per confrontarsi professionalmente con il duro mondo della moda fuori dalle proprie stanze.

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Omar nasce a Modena, dove cresce e studia all’Accademia di Belle Arti di Bologna; si trasferisce ad Anversa per seguire Fashion Design alla Royal Academy of Fine Arts. Inizia la sua carriera creando cartamodelli, per carpire la struttura intima e la costruzione di ogni capo. Lavora come designer freelance e parallelamente fa esperienze come modellista di haute couture e per diversi brand, finché alla fine del 2015 decide di creare un proprio marchio. Dopo il suo esordio a Milano nell’estate 2016, Omar torna nella stessa città per presentare la sua collezione fall-winter 2017/2018 questo sabato.

Da cosa nasce il nome della tua ultima collezione, DEPHORMOGRAPHY?

Nasce da un viaggio che mi sono fatto leggendo L’isola dei senza colore di Oliver Sacks e La metamorfosi di Kafka. Ispirazioni non cercate, ma capitate, che la mia mente rielabora con tante altre influenze e con il mio bagaglio culturale, in un fluire libero della coscienza. Ho provato a immaginare quotidianamente di vedere tutto in nero, cogliendo forme e dettagli di quello che mi circondava, ma falsati rispetto alla visione consueta, un po’ come quando guardi ciò che ti circonda al buio. Da questo nasce DEPHORMOGRAPHY, da una visione pura delle forme senza la luce a definirne i dettagli.

 

A Milano presenti la collezione maschile, a Parigi la femminile: che differenze noti fra le due categorie, sia nella fase di creazione sia negli esiti che vedremo a breve? Ricordo fra le tue creazioni del passato capi dai tessuti e dalle forme molto femminili: corsetti decostruiti post vittoriani, velette e tulle, mentre mi sembra che le collezioni più recenti vadano verso uno stile ungendered.

La mia esperienza dal punto di vista più tecnico viene dal mondo della couture e della corsetteria che amo tutt’ora; col lancio del mio brand ho scelto uno stile più quotidiano, più underground e street, perchè il mondo sta cambiando e io sono cambiato, e la mia immagine e il mio prodotto sono espressione di me stesso e della mia evoluzione. In questo caso ho pensato di dividere la collezione in due parti, anche se credo che l’immagine dei miei abiti non dipenda dal sesso ma dalla personalità di chi li indossa. Questa prima collezione è più unisex, si tratta soprattutto di una mia rivisitazione della felpa; per la seconda parte invece ho concepito capi che, dal mio punto di vista, sono più indicati per una donna. Tra l’altro, in questa collezione ho cercato di creare abiti che diano una forma al corpo che li indossa, invece di limitarsi a seguirne la forma esistente.

 

Per la Graffiti Collection hai scelto di abbandonare per alcuni capi il nero in favore di una profusione di colori saturi che mi ha ricordato le scelte cromatiche violente di The Get Down; cos’è per te il nero e cosa il colore?

I colori secondo la scienza non esistono: sono solo rielaborazioni mentali di come i nostri occhi percepiscono la luce; esistono solo luce e buio, ed è questo che mi interessa. Quando scelgo di utilizzare i “colori “, scelgo sempre colori o fantasie che ai miei occhi appaiono come il nero. Provo a spiegare: un abito arancio carcerato ai miei occhi appare o si comporta nello stesso modo del nero, e la stessa cosa vale per le fantasie di colori forti che ho creato per la Graffiti Collection.

 

Che influenza ha avuto il concetto di sacralità nel tuo percorso?

Anche se in modo indiretto, sono molto legato al concetto di sacralità; nel mio processo creativo porto avanti una disciplina e una ritualità che hanno tratti quasi ossessivi. L’abito e l’immagine sono sacri in quanto devono essere prolungamenti di noi stessi: per questo sperimento su di me e creo varie copie dello stesso capo per essere sempre identico a quello che sento in quel momento, che io sia in casa o a una festa.

 

Ci sono elementi comunemente ritenuti kitsch, o comunque non considerati belli dai più, che ti piace rivisitare nelle tue creazioni?

Tutta la mia ricerca (e anche la mia immagine) parte sempre da un elemento o un concetto ritenuto fastidioso, brutto o inquietante, per poi trasformarlo in qualcosa che susciti diversi tipi di emozioni o sensazioni, dalla curiosità alla soggezione, dall’attrazione alla repulsione. Il nero rappresenta questo: ti dà libera interpretazione, rivela ogni volta qualcosa di nuovo a seconda del punto di osservazione. Credo che la mosca sia l’immagine che più rappresenta me e la mia ricerca: una struttura fisica veramente architettonica, per non parlare della percezione, che d’altro canto suscita fastidio, ma non ti lascia mai indifferente…..Questo è quello che mi interessa: creare abiti che diano alle persone un’immagine, una forma che diventi tutt’uno con la loro personalità, abiti che suscitino una sorta di attrazione.