Un’intervista a Luca Cesari è destinata a esondare come una pentola in ebollizione sui fornelli: questo bolognese, classe ‘71, ha fatto davvero di tutto nella vita, ed è un maestro nel raccontarlo, conducendo chi ascolta in affascinanti incursioni nel suo passato, nel passato più remoto della storia del nostro territorio, riportando in vita personaggi storici e trattati dimenticati in archivi polverosi.

Eppure si vede bene il fil rouge che lega tutto questo: una concezione della ricerca storica come rivolta all’oggi, alla possibilità di riportare in vita concretamente ciò che è suggerito dai testi antichi; e non è un caso che si finisca a parlare proprio di non-morti.

Storia della pasta in dieci piatti. Dai tortellini alla carbonara, edito da Il Saggiatore, è un cammino a ritroso alla ricerca delle apparizioni dei piatti di pasta più noti della cucina italiana; ma questa fenomenologia del cibo racconta anche tanto di noi, del nostro bisogno di salvare dal mutamento e dalle contaminazioni ciò che abbiamo investito di un fortissimo valore identitario, impegnandoci in battaglie non solo di esito incerto ma anche basate su presupposti spesso errati.

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Foto di Alessio Bogani

 

Risalire alle origini del tuo percorso e dei tuoi molteplici interessi corrisponde anche a una piccola operazione di ricerca negli archivi di MoCu, che in una delle sue prime uscite cartacee si è occupata di un progetto di cui sei co-fondatore: la Sala d’Arme Achille Marozzo. Puoi raccontarci che cosa ti ha spinto a recuperare uno stile di duello così antico e come è diventata una realtà praticata in oltre quaranta sale sul territorio italiano?

L’amore per la scherma antica è una delle prime passioni che sperimentai mentre studiavo Storia dell’arte al Dams di Bologna, e più o meno nello stesso periodo in cui iniziai a interessarmi alla cucina antica.

Ero affascinato dalle armi bianche, ma anche nell’ambiente della scherma sportiva contemporanea non si sapeva quasi nulla delle origini dei combattimenti e delle tecniche antiche; esistevano solo rievocazioni storiche che ne privilegiavano gli aspetti teatrali senza riscontro con la realtà storica.

A Bologna nei primissimi anni dell’Università ho incontrato una persona che insegnava scherma a fini rievocativi e all’interno di questo nucleo di persone a un certo punto ci siamo guardati in faccia e abbiamo capito che forse c’era altro da sapere. Esisteva solo un’edizione anastatica del Flos Duellatorum curata da Francesco Novati nel 1902 e abbiamo iniziato a cercare trattati simili in biblioteche e archivi poco accessibili. Nel mentre frequentavamo corsi di scherma sportiva nell’ottica di riuscire poi a ricreare le tecniche di combattimento antico.

Il primo corso ufficiale di scherma storica per principianti da noi costituito si basa sulle tecniche di spada da lato (Achille Marozzo 1536 e Antonio Manciolino 1531) e sulle tecniche di spada medievale a due mani (Fiore dei Liberi 1410). La Sala d’Arme Achille Marozzo ha compiuto ieri ventiquattro anni, e proprio pochi giorni fa, il 18 febbraio 2021, per iniziativa di un’allieva, il nome Achille Marozzo è atterrato su Marte con il Perseverance all’interno di un microchip insieme a più di altri dieci milioni di nomi nell’ambito della campagna pubblicitaria della Nasa Send Your Name To Mars.

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Foto di Alessio Bogani

 

La tua formazione universitaria da storico ti ha dotato di un metodo di ricerca potenzialmente applicabile a ogni ambito d’interesse.

Sono sempre andato alla ricerca delle fonti, sia riguardanti la scherma sia la cucina di un tempo, e recuperando testi scritti con l’intento però di rendere di nuovo praticabili e vive le indicazioni antiche.

A Bologna la gastronomia e la scherma antica sono fortemente unite: è da sempre stata una città nota per la capacità di accogliere un numero elevato di giovani benestanti, lì giunti per studiare all’Alma Mater; nel corso del loro percorso di studi avevano bisogno di maestri e testi che insegnassero loro come combattere in caso se ne presentasse la necessità, e allo stesso tempo di trovare pasti all’altezza delle abitudini che avevano in quanto facenti parte di un ceto elevato.

Tornando ai miei studi bolognesi invece, saltuariamente lavoravo come cameraman durante gli anni dell’università; alla Sala d’Arme Marozzo ho incontrato un amico archeologo e mi sono messo a lavorare con una cooperativa di archeologi che faceva scavi per conto delle soprintendenze. Ho lavorato in scavi per circa dieci anni, durante l’università e in seguito, dopo che avevo iniziato a collaborare con istituzioni quali il Museo della Preistoria di San Lazzaro di Savena e il Museo Civico Archeologico di Castelfranco Emilia, Comune nei cui uffici lavoro tuttora, su progetti riguardanti la divulgazione e la didattica per i bambini.

Ho inventato il personaggio dell’Archeotalpa perché facesse da guida ai bambini nel loro percorso all’interno del Museo Civico Archeologico di Castelfranco Emilia e, nei quaderni didattici, perché aiutasse i più piccoli a comprendere il mestiere dell’archeologo e l’importanza delle tracce del nostro passato.

 

Come ti descrivi ora?

Soprattutto come un storico della gastronomia.

Da due anni e mezzo collaboro in maniera periodica con il “Gambero Rosso” con articoli incentrati sulla riscoperta dei piatti tradizionali italiani. Ho raccontato la storia dei cibi anche su Radio 2, in una rubrica all’interno del programma Sere d’Estate. Con toni più leggeri, ma sempre pertinenti, ho collaborato con “L’Osservatore Pastafariano” e tenuto una rubrica, Indovina chi sviene a cena, in cui testavo discutibili prodotti in scatola e lattina che pretendono di evocare la cucina italiana in molte parti del mondo.

Circa un anno fa sono stato contattato da Il Saggiatore perché avevano letto i miei articoli e un loro editor, Giuseppe Favi, ha avuto la percezione che ci fosse un lavoro di ricerca molto più ampio alla base dei miei articoli, non visibile per ragioni di spazio.

Ho proposto un progetto sfociato nella storia della pasta in dieci capitoli, ciascuno dedicato a un piatto immancabile della cucina italiana. Nel momento in cui ho firmato il contratto siamo andati in lockdown e ne ho approfittato per scrivere questo libro: buona parte della ricerca era già stata fatta, anche per corsi che ho tenuto ai servizi civili nel Comune di Castelfranco Emilia, in cui avevamo approfondito la storia della gastronomia e rintracciato ricette in testi di ogni epoca.

Il mio libro è peculiare perché ho considerato ogni piatto singolarmente, ricostruendone genesi ed evoluzione; altri libri parlano della pasta in generale, ma è importante dare a ogni tipo di pasta il suo spazio se si vuole capire chi è stato il primo a fissarlo in una ricetta scritta, quali sono le differenze fra il suo aspetto di ieri e di oggi ecc. Il libro sarà tradotto in inglese, francese, olandese, tedesco e portoghese.

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Foto di Alessio Bogani

 

Qual è l’anello di congiunzione fra tutti gli ambiti in cui spazia il tuo interesse mai sazio?

Grazie a storici come Marc Bloch e Carlo Ginzburg e all’originarsi di una corrente definita microstoria, la storia ha iniziato ad ampliare i propri ambiti di interesse e a considerare come degne di approfondimento le ricerche e le ricostruzioni della realtà di piccole comunità locali o della vita in aree geografiche circoscritte nel tempo e nello spazio, e non più solo i grandi processi storici.

Da qui gli studi sulla microstoria applicata all’alimentazione: a Bologna abbiamo Massimo Montanari di cui consiglio, per chi voglia approfondire queste tematiche, La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa o L’alimentazione contadina nell’alto Medioevo; così come la Storia della cucina italiana di Alberto Capatti per il periodo dal secondo Dopoguerra a oggi.

Con la Achille Marozzo pratichiamo, quindi riportiamo in vita, la pratica schermistica dall’epoca in cui fu fissata su carta dai trattati; nella ricerca riguardante la cucina antica, ugualmente il focus è sulla possibilità di trasformare le nozioni recuperate dagli scritti antichi in ricette realizzabili oggi.

È come se potessimo ascoltare solo la musica degli ultimi trenta o quarant’anni, e di tutto quello che c’è stato prima rimanessero solo gli spartiti, ma nessuna esecuzione. Anche in ristoranti ispirati a grandi nomi della storia della cucina come l’Artusi le ricette antiche sono rivisitate, non proposte nella forma che avevano un tempo, forse perché non si crede nel loro potenziale attrattivo.

Mangiamo cose che sono passate sotto il rullo della rivoluzione industriale

I cibi che trionfavano sulle tavole della nobiltà e dell’alta borghesia, per un lungo periodo dominate dal gusto francese, richiedevano tempi di cottura e di lavorazione che erano possibili solo per la presenza di molto personale destinato ai fornelli; della cucina dei poveri, o per meglio dire dell’alimentazione dei ceti inferiori, si sa poco o nulla.

A causa della rivoluzione industriale la manodopera servile viene assorbita dalla fabbrica e vengono meno per tutta una classe le persone addette alle lunghe lavorazioni in cucina. Non c’è più tempo di occuparsi dei fondi di cottura che erano da secoli alla base della maggior parte delle pietanze: nasce la cucina borghese e tutti i ricettari cambiano profondamente.

 

In questo anno di lockdown un numero sempre maggiore di persone si è ritrovato in cucina e con molto tempo a disposizione; il lievito è stato fra i primi beni a divenire di difficile reperibilità per l’imprevisto aumento della richiesta e, chiusi nelle nostre case, con la linea dell’orizzonte spesso coincidente con i confini dei nostri comuni, ci siamo messi non solo a cucinare tanto, ma anche a difendere strenuamente sui social i piatti iconici dalla minaccia dell’improvvisazione e della novità. Quali paure e quali bisogni si nascondono dietro questi atteggiamenti?

Difendere l’essenza di un piatto tradizionale dicendo “si è sempre cucinato così” richiede due cose: che il piatto sia antico e che non abbia subito grandi variazioni nel tempo tali da renderlo irriconoscibile pur conservando lo stesso nome. Gran parte della storia gastronomica ideologizzata è sbagliata e contaminata da narrazioni spesso fantasiose e tese ad aggiudicarsi la genitorialità di diversi piatti cult.

L’identità italiana non è come quella francese, il cui nucleo è sempre stato Parigi, forte di un apparato statale molto solido. Noi, da sempre avvezzi a pensarci separati in borghi e comuni, ci siamo ritrovati un apparato statale sovraimposto con l’Unita d’Italia e nel tempo si sono perse o sono state smantellate in favore dello Stato unitario quelle microstrutture locali che permettevano di sentirsi parte del piccolo gruppo.

Si inizia a parlare di cucina nazionale con l’Artusi (1891) che non copia i ricettari precedenti, rifugge la cucina franco-centrica, viaggia e scambia ricette coi lettori. Nobilita ciò che non era considerato nobile: gli autori di ricettari erano spesso anonimi, la cucina era considerata una cosa bassa. Lui crede che la cucina sia una faccenda fortemente identitaria, stampa il suo libro in casa e ha un successo enorme.

Solo in seguito si torna a parlare di cucina regionale. Come per i tifosi di una squadra di calcio, i territori hanno bisogno di riconoscersi un’identità interna come nucleo di persone dai comportamenti affini, dal momento che Stato e religione sono fondamentalmente condivisi sul suolo italiano. In Italia ciò si sente molto rispetto ad altri paesi europei, l’identità è non solo ciò che crea coesione in un gruppo ma è costruita in contrapposizione rispetto a un altro gruppo, e allora via libera a tutte le querelle campanilistiche dai toni accesi riversate sui media della contemporaneità ma i cui contenuti affondano le radici in una storia antica e spesso di difficile tracciabilità.

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Foto di Alessio Bogani

 

Nel tuo lavoro presso il Museo Archeologico di Castelfranco Emilia ti sei occupato anche di sepolture anomale legate al tema dei revenants: cosa ti ha sorpreso di più delle usanze dei popoli che hanno abitato le nostre terre nei millenni trascorsi e cosa credi che meriterebbe una maggiore attenzione da parte del grande pubblico?

Il tema delle sepolture anomale mi ha sempre affascinato perché sono la testimonianza pratica di usanze perdute di cui ci sono pochissime fonti scritte e assolutamente non coeve; non si conosce l’orizzonte culturale di queste pratiche nei nostri territori dall’età romana imperiale al medioevo, cioè del periodo delle sepolture che abbiamo trovato noi. Però ci sono, e poiché non corrispondono a riti conosciuti, l’argomento è sempre stato evitato.

È invece è fondamentale per capire la spiritualità antica e, anche se si può procedere solo per ipotesi, è importante provare a capire perché i nostri antenati abbiano in alcuni casi operato in modo così impattante sui corpi. C’è sempre una vasta fetta di credenze legate al dopo-morte e all’oltretomba che sopravvive nei secoli e viene tramandata, pur restando sempre al di fuori della religione istituzionale e dei testi scritti, ed è un substrato culturale che resiste alle mutazioni molto più di altri aspetti della cultura che pure sono stati fissati in forma scritta.